La favola senza “c’era una volta”

Basterebbe chiederlo a qualsiasi bambino: come iniziano le favole? Facile, no? “C’era una volta…”. Cominciano così perché qualcuno ebbe la magnifica idea di raccontare storie che finivano bene, con i protagonisti felici e contenti, e che dopo mille peripezie riuscivano a raggiungere il proprio obiettivo, obiettivo che quasi sempre era la donna amata.
Ma la donna amata può essere un successo, un trionfo, una rincorsa?
Ci sono giornate come questa che ridimensionano tutto. Nel mondo del calcio spesso i toni si alzano eccessivamente, poi tragedie come quella della Chapecoense ti lasciano inerme e ti riconsegnano alla realtà.
La squadra brasiliana, da una cittadina di 200 mila anime, si era resa protagonista di un viaggio a dir poco miracoloso: nel 2009 era nella quarta divisione brasiliana, la nostra Serie D; nel 2014 approda per la prima volta nel bramatissimo Brasilerao, l’Olimpo del calcio carioca. E nella passata stagione sfiora la prima impresa, fermandosi agli ottavi di finale della Copa Sudamerica, l’equivalente della nostra Europa League. Ma nelle favole si affrontano una serie di ostacoli, dicevamo. E infatti la sua (rin)corsa si ferma a pochi passi dalla finale.
Anno nuovo, stesso sogno: compiere un miracolo sportivo che avrebbe dell’incredibile. Nel primo turno sfida il Cuiaba, squadra di terza divisione, che la mette seriamente in difficoltà: 1-0 la sconfitta fuori casa per la Chape, come la chiamano in Brasile. In casa però la musica cambia: finisce 3-1, trascinati dal centravanti Bruno Rangel. Agli ottavi c’è l’Independiente, storica formazione argentina, ma con tanta garra gli sfavoritissimi brasiliani riescono a trascinare la sfida fino ai rigori, dove vincono e dove iniziano a credere seriamente alla vittoria. Ai quarti, un mese fa, un altro mostro sacro del calcio sudamericano, i colombiani del Club Atletico Junior: il copione è lo stesso, sofferenza e sconfitta 1-0 fuori casa, ritorno a tinte biancoverdi e secco tre a zero che vuol dire semifinale di Copa. E’ qui che arriva la vera impresa, contro il San Lorenzo di Papa Francesco: 1-1 al “Pedro Bidegain” e 0-0 in casa. Quest’ultima sfida ha un assoluto protagonista: il portiere dei brasiliani Danilo (uno dei sei sopravvissuti), che a quindici secondi dalla fine compie una parata d’istinto surreale che porta i suoi in finale. Sembra una favola meravigliosa, da raccontare ai figli stanchi nel letto che stanno per addormentarsi.
Ma è qui che la storia si inceppa: l’aereo su cui viaggiavano per andare a giocarsi quella sudata e sognata finale contro i colombiani del Club Atletico Nacional ha un problema e crolla a 250 km della destinazione. 75 degli 81 passeggeri perdono la vita, quasi tutta la squadra con il resto della parte tecnica e dei giornalisti al seguito, oltre ai membri dell’equipaggio. Una strage che a noi italiani riapre la ferita di Superga che per quanti decenni possano passare continuerà a bruciare sulla pelle di tutti. Una condivisione della sofferenza che sembra di poco valore ma che assume connotati significativi in un contesto politico e culturale che spesso fatica a familiarizzare proprio col concetto di condivisione della sofferenza. Questi ragazzi andavano a prendersi il loro sogno. Da sfavoriti, ma andavano a lottare la possibilità di compiere un miracolo per il quale probabilmente li avrebbero eletti a eroi del paese. Ed eroi lo saranno lo stesso, ma la loro rincorsa meritava una fine migliore. Vincere la Copa? No, non per forza. Giocarla, questo sì. Per questo, quando racconteremo questa storia, avremo la licenzia di cambiare il classico incipit, perché le favole hanno un lieto fine. Ma stavolta no, ‘non c’era una volta’.

A cura di Marco Prestisimone

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