Il tecnico toscano al microfono del CdS
«Aprimmo un ciclo fantastico che vorrei ripetere in Inghilterra. Il primo obiettivo resta però la salvezza»
Mazzarri, com’è la sua vita a Watford? «Non molto diversa da quella di Napoli o di Milano. Cambia solo il clima, in modo repentino anche: da una giornata bellissima, si passa alla pioggia in un attimo. Siamo sempre bagnati, qui».
Casa e chiesa, immaginiamo. «Casa e campo, sì. Abito a venti minuti d’auto dal centro sportivo, arrivo la mattina e lavoro fino alle 6 o le 7 del pomeriggio. Come a Napoli e a Milano, appunto. Potrei andare più spesso a Londra, in auto si impiega meno di un’ora, ma se becchi il traffico sei finito. Ci sono stato qualche volta nei giorni di riposo».
Vita da monaco, alla…Mazzarri. «Quando fai il mio mestiere, il posto, la città incide poco».
A che punto è la sua carriera? «Dopo l’Inter mi sono fermato per riflettere, per capire e ripartire. Non penso mai allo stato della carriera, non posso dire se Watford è un punto d’arrivo o di ripartenza, non lo so. Non mi pongo il problema. Quando ero alla Samp, pensavo solo a far bene in quella società, così come prima col Livorno, la Reggina e dopo col Napoli e l’Inter».
Perché ha scelto proprio Watford? «Per almeno cinque ragioni. La prima: con Pozzo avevo avuto tre o quattro contatti negli anni passati ma per un motivo o l’altro non eravamo mai riusciti a lavorare insieme, è un presidente italiano che ha le mie stesse idee sul calcio. Cercavo un programma condiviso fra tecnico e società e qui l’ho trovato. Posso dirle che proprio dalla Premier League avevo avuto un paio di richieste da club più prestigiosi, ma io volevo il programma, non solo la panchina, volevo lavorare come piace a me. La seconda: in Italia non avevo più nulla da dimostrare a me stesso. La terza: come conseguenza avevo bisogno di trovare nuovi stimoli. La quarta: quando in Champions League ho incontrato il Chelsea e il Manchester City, sono rimasto affascinato, anzi, folgorato, dall’ambiente degli stadi inglesi, dal clima che si vive prima e durante la gara. A ogni partita del Watford mi sembra di giocare in Champions per la scarica di adrenalina. La quinta: oggi la Premier League è il campionato più importante al mondo, quello con maggiore visibilità, e se fai bene qui puoi andare ovunque».
Torniamo alla prima ragione: lei voleva un programma condiviso, come non era avvenuto nell’ultimo anno di Napoli e nel secondo di Inter. «Non voglio fare polemica, non mi interessa. Ma quello che posso dire, riguardo all’Inter, è che tutto è cambiato con la cessione della società. Io sono stato ingaggiato da Moratti dopo il 9° posto della stagione precedente e con lui eravamo secondi in classifica, prima del passaggio del club avvenuto durante la stagione. Alla fine siamo arrivati comunque al 5° posto. E’ palese che dopo la cessione della società la situazione si è complicata».
Per quello che dice, lei non vede Watford come un passo indietro nella sua carriera. «E infatti non lo è. Ho già detto che il calcio inglese è il top del pianeta e qui ci sono grandi allenatori con cui mi posso confrontare. Da un punto di vista calcistico, questa è una situazione simile a quella di Napoli. Io sono arrivato nel 2009, il Napoli era tornato in Serie A nel 2007, dovevamo ricostruire e siamo cresciuti insieme, la squadra ed io. Dovevamo iniziare un ciclo, come qui a Watford. Per questo ho firmato un contratto triennale. A Napoli, i risultati più importanti sono arrivati dopo la prima stagione. Qui, per il momento, sta andando tutto bene: nella sua storia, il Watford non aveva mai avuto una partenza così lanciata».
Restiamo all’Inter con questa domanda: gli allenatori italiani vanno all’estero e vincono, ne arriva uno olandese in Italia e viene licenziato… «Non sta a me dire perché De Boer è stato esonerato. Noi italiani abbiamo un’ottima scuola a Coverciano, sul piano tattico il nostro livello è eccellente».
Che pensa della scelta di Pioli? «Gli auguro tutto il bene possibile».
La Juve è più avanti delle altre? «Il passato recente è chiaro, ha vinto gli ultimi 5 campionati, quindi è più avanti. E in estate ha investito ancora, acquistando uno dei più forti centravanti del mondo. Poi, si sa, il calcio riserva sempre delle sorprese».
Che in Italia possono essere Roma o Napoli. «Sono due belle squadre, giocano bene, anche se confesso che non vedo molte partite della Serie A. Sono concentrato sulla Premier».
Com’è il calcio inglese? «Lo spirito è fantastico. Dico così perché è anche il mio spirito, non mi piace arrendermi mai e fino all’ultimo secondo è battaglia. Col Napoli vincevamo spesso nel finale delle partite. Come gioco, l’arrivo di allenatori di Paesi diversi e tutti molto preparati ha portato a un miglioramento generale. Il resto lo ha fatto la nuova e ricca ripartizione dei diritti televisivi: tutte le squadre della Premier si sono rinforzate».
Chi può vincere il campionato? «L’elenco delle candidate è lungo: Manchester City, Manchester United, Chelsea, Tottenham, Liverpool e Arsenal. Non c’è in tutta Europa un campionato più incerto di quello inglese».
I due Manchester sembrano in difficoltà, pesante per quello di Mourinho, leggera per quello di Guardiola. «Cominciamo dallo United: se un anno fa anche un allenatore come Van Gaal ha avuto dei problemi, vuol dire che serve un lavoro fatto in profondità e col tempo Mourinho sistemerà ogni cosa. Il City ha avuto qualche piccola battuta d’arresto, ma niente di eclatante. Mou e Guardiola hanno dimostrato sul campo, nel corso della loro carriera, cosa sono capaci di fare. E poi sono passate appena 11 giornate, è presto per ogni considerazione definitiva. L’esempio della Juventus nella Serie A dell’anno scorso può essere sufficiente: era a metà classifica e ha vinto lo scudetto».
Anche Conte può vincere il campionato? «Se alleni il Chelsea, sei per forza fra i candidati. La qualità dei Blues è notevole e anche l’allenatore è bravo».
Che pensa del Leicester di Ranieri? «Posso dirglielo con più ricchezza di particolari sabato sera, dopo che l’avrò affrontato. L’anno scorso Claudio ha fatto un miracolo, ma lui stesso sapeva che quest’anno sarebbe stato impossibile ripetersi. E’ in testa al girone della Champions e questo lo paga nel campionato».
E’ doloroso per lei parlare del Liverpool? (ad Anfield Road, il 6 novembre, il Watford ne ha presi 6 dai Reds, ndr) «Ho battuto il mio record…: in tutta la carriera, non avevo mai subìto una sconfitta di quelle proporzioni».
Qual era il suo record precedente? «Con la Sampdoria perdemmo 1-5 contro il Milan. Spero che accada come allora: la domenica dopo andammo a vincere a Cagliari».
Un primato negativo e uno positivo. «Negli ultimi trent’anni, il Watford non aveva mai battuto in Premier il Manchester United: ci siamo riusciti in casa nostra, 3-1 per noi. E’ stata una grande vittoria».
Il Liverpool di Klopp sta volando, a quanto pare. «E’ la squadra più in forma della Premier. Ha una qualità incredibile, una condizione straripante, nessuno corre quanto loro. E poi ha un organico ricco, così ricco da portare Sturridge in panchina per metterlo dopo il quarto gol».
Qual è la squadra che gioca il calcio più bello in Inghilterra? «E’ difficile rispondere adesso. Per ora, fra quelle che ho incontrato, il Bournemouth mi ha fatto un’ottima impressione».
E qual è l’obiettivo del Watford? «Il presidente è stato molto chiaro, prima di tutto la salvezza. La squadra è tornata in Premier l’anno scorso e per le neopromosse il primo anno di solito non va male, perché la squadra è carica e va a mille. E’ il secondo quello più difficile, ma per ora i giocatori stanno rispondendo bene. Questo campionato è particolare, ci sono tante candidate al titolo e tante altre che, pur essendosi rinforzate molto, lotteranno per la salvezza. Il caso del Newcastle della stagione scorsa è lampante. Noi abbiamo fatto il mercato in ritardo, i rinforzi sono arrivati alla terza giornata e il calendario, all’inizio, è stato terribile per noi: Southampton, Chelsea, Arsenal, West Ham e Manchester United nelle prime cinque giornate. Siamo ottavi, con 15 punti in 11 partite. Alla vigilia era impensabile mettere insieme così tanti risultati».
Dov’è il difetto? «Dopo una partita fatta bene, ci rilassiamo e siamo irriconoscibili rispetto alla gara precedente. Ma questo fa parte del percorso di crescita».
Accadeva anche nel suo primo Napoli. «E’ vero, ma nessuno ricorda che i miei giocatori, in quel Napoli, erano ragazzi. Il percorso di crescita fu costante, una vera e propria escalation. Grazie al lavoro svolto in quel quadriennio, partendo dalla bassa classifica e arrivando al secondo posto e a una doppia qualificazione in Champions, da qualche anno il Napoli ha un forte appeal anche per giocatori celebrati e consolidati. Quando io ereditai la squadra, Hamsik aveva 22 anni ed un’esperienza limitata, così come Lavezzi che ne aveva 24 e Cavani, preso dal Palermo, ne aveva 23. Erano giovani con grandi potenzialità: in quella nostra cavalcata, li abbiamo aiutati a diventare campioni».
Lei adesso ha quattro ex giocatori della Serie A in squadra, tre suoi ex allievi: Zuniga, Behrami e Britos, oltre a Pereyra. «E’ capitato, non è stata una scelta voluta. I quattro stanno andando tutti bene, compreso Zuniga che nelle ultime stagioni ha giocato poco per gli infortuni. Behrami è il metodista che mi serviva per dare equilibrio alla squadra. Pereyra è il giocatore che inseguivo da tempo, oltre che sul piano tenico è utile su quello tattico perché con lui posso passare dal 3-4-3 al 3-5-2 senza problemi».
Come va con l’inglese? «Me la cavo bene. La mia insegnante dice che non ho problemi, ma io sono un perfezionista, ho paura di sbagliare e quando vado in sala stampa, con conferenze lunghe come in Italia, preferisco farmi tradurre perché voglio che i miei concetti siano chiari. Con i giocatori, invece, parlo già in inglese».
Qual è la sua sfida?
Tratto dal Corriere dello Sport