«Non me ne andai per scelta ma per necessità. Il primo scudetto con Diego insuperabile, come la Champions»
Ciro Ferrara oggi vive in Cina, dove allena il Wuhan Zall, una squadra in serie B. Il destino suo si è ancora una volta intrecciato con quello di Marcello Lippi che oggi lì è considerato nel calcio come Mao negli anni sessanta. Ferrara è stato un grande difensore: feroce sull’uomo, specialista nel gioco d’anticipo, forte di testa, ottimo di piede. Ha vinto il vincibile in una carriera trascorsa con solo due maglie addosso, le stesse che hanno indossato Sivori, Zoff, Altafini, Mauro, Cannavaro e Higuain.
È stato allenatore efficace dell’Under 21, ha conosciuto una delle stagioni più difficili del pre-Agnelli alla Juve e per questo è stato esposto a critiche spesso maramaldesche, tipiche in un Paese che adora sempre gli ultimi vincitori. Alla Samp è entrato in rotta di collisione con la società e così per trovare un calcio meno isterico è andato lontano lontano.
Ma, si sa, “La Cina è vicina”. «Ho cominciato anche io in mezzo alla strada, nel cortile di casa, nell’ora del riposino dei grandi. Quelle partite furiose giocate con il rischio che qualcuno in canottiera, svegliato dal sonno, ti bucasse il pallone. Ho giocato in una squadra che portava il nome di un poeta che studiavo sui libri delle elementari, la “Salvator Rosa”. Dopo una parentesi al Grumo Nevano mi prese il Napoli. Ho fatto un anno di allievi e l’anno successivo, sempre con gli allievi, vincemmo lo scudetto nazionale contro la Fiorentina. Per premio, di solito, si portano in ritiro con la prima squadra i ragazzi della Primavera. Quella volta invece scelsero quattro giocatori degli allievi nazionali. Fra questi c’ero anche io. E quindi a diciassette anni, nell’arco di un triennio, mi sono ritrovato in ritiro con la prima squadra del Napoli. Non uno scherzo, era la formazione di Maradona, perché era l’anno in cui è arrivato Diego, luglio ’84″.
Lei ad un certo punto ha avuto una malattia, vero?«Non è proprio una malattia, è praticamente il morbo di Osgood Schlatter che oggi tantissimi ragazzini in fase di sviluppo hanno. È un problema della cartilagine del ginocchio, in modo particolare, e quindi avevo grossi fastidi, se stavo tanto tempo seduto, persino a stendere le gambe, per non dire della attività fisica. Oggi come oggi è un problema di sviluppo, di accrescimento e quindi stai per un periodo fermo e passa. Io invece credo di essere stato l’ultimo ad aver subito un’operazione. Poi mi hanno ingessato tutte e due le gambe, sono stato per un mese sulla sedia a rotelle. Ma non smettevo di giocare al calcio, mio fratello mi lanciava il pallone e io di testa ci davo dentro, con tutta la sedia a rotelle».
Poi si è liberato dei due gessi, come Forrest Gump. Quanti anni aveva?«Avrò avuto quattordici anni. Non avevo ancora cominciato la mia attività sportiva che già ero fermo».
Mi dice del suo primo incontro con Maradona?«Il primo incontro è stato il giorno della presentazione di Maradona al Napoli. Noi avevamo vinto lo scudetto da qualche giorno e allora, in occasione della presentazione di Maradona al San Paolo, facemmo una partita amichevole contro un’altra squadra. Maradona premiò noi ragazzi del settore giovanile. Quindi quello è stato il mio primo incontro in un San Paolo strapieno, con sessantamila persone lì ad assistere alla presentazione di Maradona. Io pensavo che fossero venuti per noi allievi ma ho il sospetto che non fosse così. È uno dei ricordi più belli, provi ad immaginare un ragazzino di diciassette anni che si trova davanti a sessantamila persone a giocare e a essere premiato da Maradona. Ma in quel momento io non sapevo assolutamente che dopo pochi giorni mi sarei ritrovato in ritiro con i titolari. Ho saputo della notizia mentre ero in vacanza con i miei genitori, a Gaeta. Ero sulla spiaggia e, ovviamente, giocavo a pallone. Il Napoli mi chiamò allo stabilimento e mi disse che il giorno dopo dovevo presentarmi in ritiro con la prima squadra. Io ero in tutti gli stati, impazzito di gioia».
Mi racconti un po’ com’era Maradona, come persona.«Lui, pur essendo il numero uno al mondo, non ha mai fatto sentire questo nei confronti dei suoi compagni, che infatti gli hanno sempre voluto bene. Credo che questa sia stata la sua dote più grande: mettersi comunque a disposizione e giocare con giocatori che inevitabilmente erano più scarsi di lui. Ma questo lui non lo ha mai fatto pesare; e poi nei confronti dei ragazzi aveva sempre parole di incoraggiamento. Insomma, ci ha dato un grandissimo aiuto, all’inizio noi ragazzi eravamo molto timorosi e rispettosi nei suoi confronti, ma lui immediatamente ci metteva a nostro agio».
Lei ricorda qualche episodio con lui?«Quello forse è stato uno degli unici anni in cui è venuto in ritiro, perché, dopo, qualcuno lo ha saltato. Veniva un po’ più tardi, però quelli furono momenti in cui ognuno di noi cercava di capire, di scoprire, di vedere che cosa faceva durante gli allenamenti. Per noi tutti i giorni era una sorpresa perché le cose che gli vedevamo fare erano cose che non avevamo mai visto e il fatto stesso di averlo così a contatto, a stretto contatto, per noi era assolutamente un sogno. Dire che cercavamo di emularlo era impossibile perché quello che lui riusciva a fare con il pallone nessuno di noi era capace neanche di imitarlo».
Oggi giocano Juventus e Napoli che sono le due squadre nelle quali è incastonata la sua vita sportiva. Ci sono tante coincidenze e tanti intrecci: a cominciare dal fatto che il suo esordio è proprio contro la Juventus.«Sì, il 5 maggio ’85 è la data che resterà scolpita nei miei ricordi. Le volte che ero andato in panchina mi ero anche riscaldato ma non c’era mai stata la possibilità di entrare. Poi improvvisamente capita in quella che è la partita dell’anno, la partita clou per noi napoletani. In quegli anni gli obiettivi non erano grandi obiettivi e quindi battere la Juventus voleva dire tutto. Dopo una ventina di minuti un mio compagno si infortunò e Marchesi mi mandò in campo. Un ragazzino di diciotto anni che entra e deve marcare un certo Boniek… Io non potevo credere ai miei occhi, non potevo credere a quello che mi stava succedendo. Però devo dire che il debutto andò molto bene. Recentemente ho rivisto la partita e mio figlio mi ha detto “papà, andavate a due all’ora”. Marcai Boniek che poi, tra il primo e il secondo tempo, in uno scontro fortuito con il sottoscritto, uscì per una botta alla caviglia».
Fortuito?«L’ho fatto apposta, ma non diciamolo. Marcavo Boniek, a uomo, quindi ovunque Boniek andasse, io lo seguivo. Invece nel secondo tempo mi ritrovai sulla fascia a fermare le discese di Cabrini. Quello fu un debutto fantastico, per me che sono napoletano».
Tra Platini e Maradona chi era più forte?«Platini è stato un grandissimo, ma Maradona… Ci sono stati tanti campioni, tanti giocatori forti con i quali io ho giocato e contro cui ho giocato. Maradona per me è ad un altro livello. Il più forte in assoluto. In tanti parlano del confronto con Pelè ma per me è Diego il numero uno».
Che cosa significò lo scudetto per la città di Napoli?«Significò una rivalsa, una rivincita, un momento di gioia, di felicità per una città che sicuramente ha dei problemi e in quel momento però li dimenticava, li metteva da parte. Per noi rappresentare la nostra città In Italia e successivamente anche in Europa voleva dire tanto. Ho avuto la fortuna di vincere anche altri scudetti. Ma quello, non solo perché era il primo, è indimenticabile. Faceva venire i brividi sentire questo trasporto della gente e la felicità di un’intera città. Non è stato soltanto un discorso sportivo, fu anche una occasione di identità sociale. E quello scudetto è scritto nella storia e nella memoria della città».
Lei ha fatto lo stesso percorso di Higuain ?«Su questo ho da obiettare. Nessun calciatore fino ad oggi ha avuto la storia che ho avuto io con il Napoli. La mia storia con il Napoli è quella di un ragazzo della città, uno scugnizzo, cresciuto nel settore giovanile, la storia in una squadra che è durata per dieci anni, storia anche di capitano, quando andò via Diego. Quindi non credo che le due vicende si possano minimamente accostare. Io avevo un contratto in scadenza nel ’94, in quel momento il Napoli aveva assolutamente bisogno di incassare quello che era allora il parametro. Ero un giocatore in scadenza a cui non era stato proposto dal Napoli un rinnovo contrattuale. Già alla fine dei mondiali del ’90 Boniperti aveva chiesto al Napoli di potermi comprare ma Ferlaino mi dichiarò incedibile. Quattro anni dopo mi cedette. La mia decisione di andare alla Juventus è stata presa perché dopo aver giocato in un Napoli vincente credevo che la Juventus fosse la squadra che mi poteva permettere di restare a certi livelli, qui in Italia».
Ora come vede Juventus-Napoli di oggi?«Intanto, purtroppo, non so ancora se sarò in grado di riuscire a vedere la partita, visto l’orario: saranno le due e quarantacinque del mattino in Cina. Però la vedo come sempre, una partita con grandissima rivalità tra due candidate a lottare per il vertice. Da diversi anni ritengo la Juventus davanti a tutti come squadra e come organizzazione societaria. Le altre, e tra queste sicuramente il Napoli, devono cercare di mantenere il ritmo della Juventus fino alla fine».
Com’era Montero?«Credo sia stato il compagno di reparto più forte con cui ho avuto la possibilità di giocare. Secondo me ci completavamo e integravamo benissimo. Io di Paolo ho un ricordo fantastico, come giocatore e come uomo».
Invece l’attaccante più forte che ha incontrato e quello più “bastardo”?«Il più “bastardo”? Senz’altro il mio amico Aldo Serena. Ogni volta che ci incontriamo glielo ricordo. Porto ancora i segni di una bella gomitata sotto al mento. Però lui era furbo e non si faceva scoprire dall’arbitro. Oggi con tutte le telecamere sarebbe espulso ogni domenica. Il più forte, e di attaccanti forti ne ho incontrati tantissimi, è uno che nessuno forse ricorda che, però, mi ha mandato al manicomio. Non era titolato come Van Basten o Batistuta. Era la mia seconda partita, avevo fatto bene contro la Juve e partii titolare. Rino Marchesi il giorno prima convoca me, Bruscolotti e Ferrario e ci chiede quali avversari avremmo voluto marcare. Io ovviamente ero un ragazzo quindi ho preso la parola per ultimo e lì ho commesso un grandissimo errore perché Bruscolotti dice “io marco Zico” e io penso “cazzo, menomale lui marca Zico”; poi Marchesi chiama Ferrario e Moreno dice “mister, va bene io prendo Carnevale”; e io penso “menomale va, mi è andata bene”. Alla fine, pensando di essere il re dei furbi, dico “io prendo Montesano”, il terzo attaccante dell’Udinese. Io solo alla fine della partita ho capito perché quei due bastardi dei miei compagni non volevano Montesano. Montesano era un dribblomane che se stava in giornata ti mandava al manicomio. Io quel giorno sono completamente impazzito per le finte che è riuscito a farmi. E ancora maledico i miei due compagni che mi fregarono».
L’allenatore con cui si è trovato meglio e quello con cui si è trovato peggio?«Assolutamente Lippi su tutti. L’ho conosciuto a Napoli nell’ultimo anno e facemmo una grandissima cavalcata nonostante i drammatici problemi societari. Quell’anno riuscimmo ad arrivare in coppa Uefa, poi con Marcello lavorammo insieme nella Juve degli scudetti e della Champions. Quello con cui mi sono trovato peggio, ma in realtà probabilmente era più un problema mio, forse è stato Claudio Ranieri nell’anno al Napoli. Quella stagione venne preso anche Blanc e si passò dalla marcatura a uomo a quella a zona. Ecco, forse quello è stato l’anno in cui non sono riuscito a dare il massimo all’allenatore».
Delle finali di Champions perdute quale le pesa di più?«Sicuramente quella con il Borussia Dortmund. Una non l’ho giocata, con il Real Madrid, perché venivo dalla frattura della tibia, e l’altra era contro il Milan, partita che perdemmo ai rigori, quindi sconfitta figlia della sfortuna e non del campo. Quella contro il Borussia mi dispiace un po’ perché c’erano tanti ex juventini e perché oggettivamente eravamo favoriti. Tra l’altro in quella circostanza Riedle mi fece due goal».
Italia ’90. Che cosa non andò in quei mondiali?«Qualcuno disse che nella partita con l’Argentina i tifosi del Napoli tifarono per Maradona, o contro gli azzurri o comunque non tifavano per l’Italia. Io non lo credo e comunque non fu quella la causa. Quella del 1990 è stata una delle Nazionali più forti: giocava bene il gruppo era veramente unito. Però la lotteria dei rigori è così, non ci puoi fare niente. Sfugge alle previsioni tecniche e anche a quello che può essere magari il merito di una squadra. Forse un errore c’è stato: se avessi giocato io contro Maradona… Ma io ho giocato soltanto la finale per il terzo e quarto posto. Ovviamente è una battuta».
Sacchi non l’amava molto, vero?«Sono stato convocato la prima volta che lui arrivò in Nazionale e poi da lì non trovai spazio. Non riuscivo a farmene una ragione perché comunque erano stati convocati tantissimi difensori, che non avevano ancora, in quel momento, la storia che potevo avere io. Sacchi aveva delle idee tattiche diverse da quello che era il mio modo di giocare e quindi questo l’ho pagato. Però una delle soddisfazioni più grandi fu proprio quando lui mi richiamò in Nazionale: io avevo cominciato con la Juventus a giocare a zona, quindi ero compatibile con i suoi schemi. Prima degli Europei del ’96 lui mi convocò e questa cosa mi fece molto piacere. Ma mi infortunai proprio durante l’ultima amichevole contro il Belgio e quindi non ho preso parte a quella spedizione. Sacchi dice sempre che se avesse avuto Antonio Conte e me, ambedue infortunati, probabilmente quegli Europei sarebbero andati in modo diverso. Non so se sia così veramente, però le parole di Arrigo mi hanno fatto molto piacere. Poi mi ha scelto anche come Ct dell’under 21, segno di una stima e di una fiducia che io ricambio».
Passiamo alla sua esperienza di allenatore. Under 21 e poi parliamo un attimo di quando ha allenato la Juventus.«Mi viene questo desiderio nel momento in cui Lippi mi chiama e mi propone di collaborare con lui per i mondiali in Germania. Non pensavo che questo potesse essere il mio futuro. Avevo un contratto con la Juventus da dirigente, da responsabile del settore giovanile, e quindi vedevo più una carriera dirigenziale. Lippi mi chiama, mi rimette sul campo a contatto con i ragazzi. Tra l’altro ragazzi che conoscevo bene, con cui avevo condiviso tante esperienze in campo sia da avversari che da compagni. È allora che mi prende questo desiderio di allenare. Poi capita l’occasione della Juventus: io ero in trasferta con la Primavera bianconera, ero andato a vedere una partita a Catania. La società decide di esonerare Ranieri nelle ultime partite e quindi di chiamarmi. Ora sfido chiunque a non accettare, in quel momento, quella possibilità. Faccio le ultime due partite che tra l’altro vanno bene, riusciamo a mantenere la posizione ed entriamo in Champions. Io sinceramente in quel momento non pensavo minimamente di continuare. E invece mi richiamano, perché vogliono darmi questa chance, questa possibilità per l’anno successivo e anche lì era difficile dire no ad una società a cui hai dato tanto e da cui hai ricevuto tanto».
Perché poi andò male?«Si può dire di tutto: si è parlato di inesperienza, certo non potevo avere l’esperienza che ho oggi. Però anche qui avrei qualche cosa da dire: non si capisce perché io improvvisamente, al mio primo anno, avrei dovuto subito vincere lo scudetto e non si capisce perché allenatori più esperti, più navigati di me, sono arrivati dopo e hanno incontrato le stesse difficoltà. Mi riferisco a Zaccheroni e mi riferisco a Del Neri. Con risultati anche peggiori. Sì, è vera la mia inesperienza, ma forse non era solo quella la causa. C’erano problemi strutturali che la nuova dirigenza ha poi affrontato e risolto».
Perché è difficile allenare in Italia?«Perché è la realtà, perché non ti danno il tempo necessario per impostare un lavoro di lungo respiro. I risultati sono importanti un po’ dappertutto però noto che da noi c’è un accanimento notevole e una pressione davvero eccessiva. Lo so, onori e oneri, è il nostro mestiere. Però io in questo momento avevo bisogno di un ambiente diverso e per questo sono qui in Cina. Giocare con la serie A è, comunque, il sogno e il desiderio di tutti».
Com’è allenare in Cina?«Sicuramente certe pressioni non ci sono. L’allenatore viene visto a trecentosessanta gradi come organizzatore. I cinesi tendono a scegliere allenatori stranieri che li aiutino non solo nell’organizzazione tecnica e tattica, ma anche in quella societaria. L’esperienza di chi ha giocato in Europa per loro è molto utile».
Per lei la Cina è una tappa?«Qui il calcio è meno soffocante. La pressione mediatica è incomparabile. Il cinese non lo conosco, non leggo neanche ciò che scrivono di me, però è una pressione diversa, a cominciare dalla conferenza stampa. L’incontro pre gara con i giornalisti dura quattro o cinque minuti e dopo la partita sono altri dieci minuti al massimo. Sto vivendo un’esperienza molto bella, gratificante, tra l’altro quest’anno è andata molto bene, quindi sono soddisfatto».
Pensa di rientrare presto in Italia?«No, io spero di continuare a portare avanti il percorso che ho iniziato qui. Ci sono tante cose da mettere a posto, da organizzare, da sistemare. Però in questo momento devo riconoscere che sto molto bene. Ho ricevuto dei grandi attestati di stima e anche ho instaurato un bellissimo rapporto con i ragazzi. Nei mesi scorsi ho vissuto anche momenti molto difficili e molto delicati, però alla fine abbiamo raggiunto l’obiettivo della salvezza. L’abbiamo raggiunta e poi siamo arrivati sesti, facendo un ottimo finale di stagione. Io sono contentissimo per questo. Vorrei continuare questo percorso che ho iniziato, chiaramente cercando di migliorare la squadra, di rinforzarla, perché come in Italia anche qui l’anno prossimo vogliono vincere. Vogliono salire in serie A. Ma non è così semplice».
Qual è stato il momento più bello della sua carriera?«Me ne concede due? Il primo scudetto con la squadra della mia città e la prima Champions con la Juve. Un momento azzurro e uno bianconero. I due colori, gli unici due colori, della mia lunga e meravigliosa vita di calciatore».
Fonte: Corriere dello Sport