Dodici anni dopo, Roma è diventata di nuovo la sua città. Era scappato di corsa, nel giugno del 2004, quando lo chiamò Moratti per consegnargli un progetto ambizioso: ricostruire l’Inter e vincere. Da giocatore quel matrimonio in nerazzurro non si era mai consumato nonostante molteplici tentativi. «Questione di attimi, ma il feeling c’era eccome. Cragnotti fu più svelto, mi travolse, scelsi Roma d’istinto e ho vinto lo scudetto con la Lazio. A Milano ci sono andato dopo e sulla panchina ho centrato lo stesso obiettivo, aprendo il ciclo che poi Mourinho ha concluso con il Triplete. Penso sia andata bene così. A Cragnotti e a Moratti, intendo, oltre che a me, sia chiaro».
Ma poi all’Inter è tornato per una seconda ricostruzione: il cuore aveva prevalso sulla ragione. «Non voglio avere rimpianti o dire oggi che ho fatto male ad accettare. Era una sfida importante, sono convinto di non aver sbagliato a tornare a Milano. Purtroppo non ho concluso la missione ma resta un’esperienza positiva. Sono stati fatti passi avanti molto importanti, oggi esiste una squadra base che prima non c’era. Ecco, mi dispiace di non aver terminato il lavoro come la prima volta»
Un divorzio sorprendente: la domenica mattina arriva la proposta di rinnovo per tre anni dalla Cina, la sera firma la risoluzione ed esce di scena.«Ci siamo stretti la mano, da buoni amici. I rapporti restano buoni e non ho motivo di avere rancori contro il club nerazzurro, come penso loro non possano averne nei miei confronti. La risoluzione è stata consensuale, non siamo riusciti ad imboccare la stessa strada per raggiungere gli obiettivi che l’Inter deve sempre avere davanti: lo scudetto e la Champions. Resterò, ovviamente, un tifoso nerazzurro».
Spifferi fastidiosi: lei non avrebbe gestito bene la preparazione perché sapeva che se ne sarebbe andato. «Sciocchezze, l’unica accusa su cui voglio rispondere. L’ultimo che mi ha tirato in ballo è stato Gullit. Era invidioso da giocatore, lo è anche adesso da disoccupato. Cosa sa lui per parlare del lavoro di un collega? All’Inter hanno i dati del lavoro fatto durante la preparazione: siamo nell’epoca moderna, ci sono i Gps, i computer, io ho uno staff di professionisti seri, nessuno può permettersi di denigrare il nostro piano. Ci sono i dati, i numeri, è tutto registrato. Non esiste, per chiarezza, una squadra pronta il 20 agosto. Ci vogliono sei o sette giornate, diciamo il mese di settembre, per essere al top. E questo vale per tutti. Fine del discorso e di una polemica strumentale».
C’è qualcosa che vorrebbe cambiare della seconda esperienza milanese? «Forse il mese di gennaio, quello in cui l’Inter ha avuto un black out totale. Purtroppo quando riapri un ciclo può capitare. Se qualche sconfitta fosse diventata un pareggio, probabilmente saremmo andati noi a fare il preliminare e non la Roma. Anche nel 2004 eravamo partiti a piccoli passi e poi siamo saliti al vertice per restarci».
Se le avessero preso Yaya Touré forse non se ne sarebbe andato. «Non ci casco. Yaya, da sempre, era uno dei miei obiettivi. Avevamo quasi chiuso il suo acquisto con il presidente Thohir un anno fa, poi lui preferì non tradire il Manchester City dove lo avevo portato io. Touré, come Ibrahimovic, è uno di quei giocatori che fanno la differenza, possono spostare da soli l’esito di un campionato. Come Messi e Cristiano Ronaldo».
Anche in Italia? «Certo, oggi la Juve fa parte di un altro pianeta, sotto tutti i punti di vista. Ma se un club avesse preso Ibra o Yaya o addirittura tutti e due insieme avrebbe lottato con i bianconeri per il titolo. Ne sono certo. Non parlo solo dell’Inter, parlo di Milan, Napoli, Roma, Fiorentina…Le big, insomma, quelle del giro che conta».
Secondo lei scudetto è solo per una squadra: la Juventus. «Sì, direi di sì. Il colpo Higuain fa la differenza. E’ chiaro che Gonzalo non segnerà 36 gol come a Napoli perché si dividerà tra campionato e Champions, però è uno di quegli acquisti che creano il vuoto alle spalle. La società bianconera è avanti anni luce. Ha lo stadio di proprietà, ha vinto cinque titoli consecutivi e voglio vedere quanti ancora ne raggiungerà. Può battere ogni record».
Allegri ha anche…Dybala. «Ho provato a portarlo all’Inter, da Palermo, ma lui scelse la Juve. Un fuoriclasse, uno che può avvicinare Messi».
Alle spalle della Juve? «Napoli, Roma, Inter e Milan, con Fiorentina e Lazio che possono creare problemi a tutti in una partita secca. Hanno giovani talenti molto interessanti. De Laurentiis ha investito i 90 milioni di Higuain su talenti importanti: raccoglierà i frutti di questi investimenti con il tempo».
Lei crede nei rossoneri? Eppure i cinesi dell’Inter hanno investito, gli altri ancora no. «Non hanno fatto in tempo, stanno sbarcando in Italia proprio in questi giorni. I tifosi del Milan devono avere pazienza: una garanzia è l’arrivo di Marco Fassone, un grande dirigente con cui ho lavorato in nerazzurro. Ha una notevole competenza e creerà un gruppo di lavoro importante».
La Roma giallorossa dovrà affrontare anche l’anno dell’addio di Totti: dal punto di vista emotivo, uno choc. «Giocatore fantastico, in cui spesso mi sono riconosciuto, non è un mistero. Francesco ha avuto un grande coraggio a continuare, io alla sua età ero già in panchina da molto tempo. Ecco, lo dico: ho il rimpianto di non averlo mai allenato, mi sarei divertito moltissimo, soprattutto nelle partitelle…».
Può andare allo stadio Olimpico, adesso che vive a Roma. «Lo farò, certo. E mi dispiace vedere che qua lo stadio è quasi deserto. Purtroppo sono stati messi dei paletti importanti per entrare all’Olimpico. E, in generale, in Italia il pubblico si sta allontanando: in Inghilterra vedo tutto esaurito in agosto».
Da dove pensa di ripartire? «Aspetto un progetto serio, non ho fretta. Ogni tanto staccare fa bene».
Italia o estero? «Non ho preclusioni, lavorare in Inghilterra è stato fantastico. La Premier resta il top».
A proposito: United o City? «Sarà un testa a testa, la mia ex squadra resta sempre la più forte, sulla carta. Sono ancora orgoglioso di aver costruito quel colosso: Yaya Touré, Silva, Aguero…. Dall’altra parte di Manchester c’è Ibrahimovic: sarà un duello appassionante ma occhio al Chelsea. Conte è già partito benissimo».
E il Leicester di Ranieri? «Ha raccontato una favola diventata leggenda. Ha tenuto duro, ha colto l’attimo. Ora penso che per il Leicester sarebbe un successo altrettanto grande arrivare nelle prime sei. Il loro scudetto ricorda quello del Verona. Samp e Lazio, invece, avevano un progetto alle spalle, investimenti fatti sul mercato per vincere».
La Premier in mano agli italiani. «La nostra scuola è davvero al top: siamo allenatori di punta, esportiamo il nostro calcio in tutto il mondo. Certo, vederne così tanti in Inghilterra fa un certo effetto conoscendo quanto loro siano nazionalisti».
Ancelotti ha puntato sulla Germania. «Tecnico e uomo straordinario. Sempre sereno ma, credetemi, quando vuole è duro anche lui. Vincerà la Bundesliga con il Bayern, è abituato a gestire grandi squadre e non avrà molte difficoltà nell’impatto con la nuova realtà».
Sta per partire una grande Champions. «Ecco un altro grande rimpianto. La inseguo dalla notte in cui l’ho persa con la Samp contro il Barcellona per una questione di centimetri. Io ci credo, come sempre. A volte vai in un club, vinci lo scudetto e subito anche la Coppa più importante. Detto questo, difficile prevedere chi partirà con il ruolo di grande favorita: posso dire il Barcellona perché ha Messi, Neymar e Suarez ma quando si entra nella fase finale tutto può accadere».
L’anno scorso nessuno avrebbe puntato sul Real dopo la crisi tecnica. «Zidane ha gestito il suo ingresso in quel colosso grazie all’esperienza accumulata da giocatore. Ripetersi è sempre difficile ma è chiaro che la squadra di Ronaldo è sempre tra le candidate al successo».
L’Italia non ha un Ronaldo ma è partita con il piede giusto. «Ventura è stato intelligente, ha lavorato sulla base costruita da Conte e ha messo in moto la macchina. Nel bienno potrà utilizzare talenti emergenti come Immobile, Verratti, Insigne, Bernardeschi, Baselli. I giocatori ci sono e il ct è un maestro di calcio. E’ una squadra in cui credo».
E che avrebbe allenato volentieri. «Come tutti quelli che fanno il mio lavoro. La Nazionale del proprio Paese è un punto di arrivo, un motivo di orgoglio. Sentire l’inno e rappresentare gli italiani è una sensazione che ho provato in Inghilterra con il City. Da brividi. Chissà…».
Fonte: Corriere dello Sport