Ha dormito con il bronzo al collo. «Non pensavo che la medaglia pesasse tanto». Giuseppe Vicino, capovoga del «4 senza» – arrivato terzo ai Giochi, la guarda sorridendo.
È la medaglia che vale la gloria e 50mila euro, utili per riscattare la casa di Licola, dove abita con la famiglia, finita all’asta perché papà Alessandro, impiegato presso l’ex Consorzio di bacino Napoli 1, non ha potuto versare pìù le rate: lavora ma non è pagato da quattro anni e, se si ferma, viene licenziato. «Le necessità della mia famiglia mi hanno dato più forza negli ultimi 500 metri della gara. Non potevo perdere quella medaglia. Eppure, io vorrei gareggiare soltanto pensando all’obiettivo sportivo, a ciò che più mi piace».
Se mette a confronto le sue necessità e i vizi di calciatori bravi solo a chiedere aumenti di contratto, cosa pensa? «Il problema non è il calciatore super pagato, ma l’arretratezza del Paese sotto l’aspetto sportivo. Se ci fosse più attenzione verso discipline come il canottaggio, vi sarebbero sponsor e gratificazioni per i medagliati olimpici. Io ho avuto un problema, purtroppo comune ad altre famiglie a Napoli, e non sapevo come uscire da quella assurda situazione. Ero solo finché non ho trovato al mio fianco Giovanni».
Giovanni Malagò, il presidente del Coni. «Lo chiamo Giovanni, con tutto il rispetto, perché si è interessato da vero amico. È assurda la situazione che vive mio padre: lavora fino a otto ore al giorno, ma non è pagato».
Non c’era papà alla finale di Rio. «Avrei voluto portarlo, ma sarebbero serviti tanti euro, più utili per altro. Ha fatto festa a Napoli. Come al solito, è salito in macchina e si è messo a girare e suonare il clacson. Ho sentito nonna Angela: piangeva più che parlare. Il primo messaggio è stato di Beatrice, la mia fidanzata, ex canottiera, sul telefonino brasiliano».
Perché non su quello italiano? «L’ho perso su un taxi, pensavo ad altro prima della finale. Otto mesi fa, quando è cominciata la preparazione olimpica, ero stato chiaro con lei: dovrò dedicarmi solo al canottaggio, voglio una medaglia alle Olimpiadi, e potrei trascurarti. Beatrice ne ha sofferto: in alcuni giorni non avevo tempo neanche per telefonare».
Quanto si allena un canottiere prima delle Olimpiadi? «Otto ore al giorno, distribuiti in due sedute».
Ha mai pensato che potrebbero esserci avversari che vincono allenandosi meno ma dopandosi? «Non capisco perché un atleta debba prendere veleno per andare più veloce. Così lo sport è accanimento, non più divertimento. Io mi doperei, tra virgolette, soltanto con quattro allenamenti al giorno per andare più forte. Più fatica per l’oro, allora sì che ci starei».
Come inizia la storia del capovoga più bravo di Italia? «Al Lago Patria, vicino a casa mia, quando avevo 13 anni. Mio fratello Antonio aveva cominciato a fare canottaggio, lo accompagnai una domenica al campo di regata e restai affascinato. Non conoscevo quello sport e mi sembravano strani quegli atleti che remavano di spalle. Mi tesserai subito per il Circolo Italia, che ha aperto una bella struttura al Lago Patria proprio per chi non è napoletano. Più bravo d’Italia io? Lo dicono altri, non io».
Come si è trovato nel club più blasonato di Napoli? «All’inizio, non a mio agio. Gestualità – movimenti sono particolari e io non sono nato in quell’ambiente. Due persone, Paolo Cappabianca e Antonio Colamonici, mi hanno educato insieme ai miei genitori».
Capovoga, cioè leader: una vocazione? «Devi guadagnarti il rispetto dell’equipaggio. Sei un capo che non deve imporre le scelte, ma condividerle con i compagni, fidandosi sempre di loro».
Il prossimo obiettivo? «Imparare l’inglese. Castaldo, che lo parla bene, smette e allora devo pensarci io».
Fonte: Il Mattino