Giampaolo, a Empoli ha costruito una delle squadre più divertenti del campionato.
Come? «Con la qualità, prima di tutto. Non so quante squadre in Italia avessero un centrocampo qualitativo come il nostro: Paredes, un ex trequartista, come play; Zielinski, centrocampista moderno, che fa gol, assist, recuperi; Croce o Buchel dall’altra parte. E Saponara, per me l’emblema del giocatore perfetto: qualità, corsa e lavoro. Poi serve l’organizzazione collettiva: è quella a permetterti di sorreggere la qualità».
Il lavoro che ha ereditato da Sarri le è servito? «Certo, sono arrivato in una squadra che veniva da lontano, abituata a lavorare in un certo modo da anni. Andavano a memoria. Se porti avanti un gruppo per anni, hai dei vantaggi: devi solo perfezionare. Altrimenti c’è bisogno di tempo, perché per addestrare la squadra a muoversi collettivamente serve tempo. Che devi riuscire a guadagnare mettendoci dentro qualche risultato, se no ti mandano a casa. Io a Empoli ho osservato e ho iniziato a interagire con discrezione. Mi sono guardato e riguardato tutte le partite dell’anno precedente e poi ho iniziato a trasmettere la mia idea di calcio. Noi forse rispetto all’anno scorso abbiamo cercato più il palleggio e meno la profondità. La cosa più bella me l’ha scritta Maccarone, cioè che sono rimasto nel cuore di tutti per la mia coerenza e modo di fare».
Sarri aveva lasciato l’Empoli in buone mani… «Fu proprio lui a chiamarmi a gennaio e a dirmi “Guarda che se io dovessi andar via, ho parlato al club di te”. E’ un amico, abbiamo fatto il corso a Coverciano insieme, mi ha mostrato il suo archivio, abbiamo idee in comune sul calcio».
E quali sono queste idee? «Giocarsela. Intendo dire anche con le big, non essere passivi. Creare autostima, consapevolezza. Magari perdere, ma andare a giocarsela. E’ qualcosa di ambizioso, è questione di mentalità. Organizzare una squadra collettivamente è la strada più lunga, ma nel medio-lungo periodo paga di più. Poi l’impostazione dipende dalle caratteristiche dei giocatori: io avevo una squadra poco fisica, quindi più lontano mi difendo meno rischi corro. Però devo avere giocatori veloci dietro, in grado di recuperare la profondità».
Sembrano i concetti del Barcellona, che lei conosce bene. «Lo stage che ho fatto lì è stato un’esperienza che mi ha fatto vedere il calcio da un’altra prospettiva. Ciò che mi ha colpito di più è il modello uguale per tutti: i ragazzini di 10 anni fanno gli stessi allenamenti della prima squadra. In Italia invece gli allenatori del settore giovanile propongono ognuno il proprio tipo di calcio. Là tutti i tecnici sono al servizio di un modello e non di se stessi. Appena tornato, andai al Cesena ed ebbi l’idea di proporre quel tipo di calcio. Fu un errore: se non hai qualità di palleggio, è un suicidio. Ma qualcosa mi è rimasto dentro e l’ho ripescato nel tempo. Empoli mi ha permesso di applicare certe idee».
Ci spieghi. «I giocatori devono muoversi collettivamente, pensare insieme. Questo aiuta a non difendere individualmente. Anche chi sta davanti, muovendosi in una certa maniera, ti permette di coprire una certa traiettoria preventivamente. Noi poi avevamo un palleggio corto, che a volte permette all’avversario di chiudersi e non dare spazi. Ed è lì che subentra la qualità nell’uno contro uno per essere pericoloso. È la qualità che scardina. Aggiungo che il giocatore di qualità di solito è anche calcisticamente più intelligente, apprende prima. E all’allenatore vengono anche idee nuove, sviluppa la creatività».
Ma la qualità da sola non basta. «Non deve essere anarchica. Deve essere al servizio della squadra. La qualità fine a se stessa è inutile. Se ho un giocatore di qualità, un trequartista, che non rientra e non corre, è uno in meno. E non posso permettermelo».
Quali ingredienti non devono mai mancare a un allenatore per fare bene? «Innanzitutto il tempo. Io sono abituato a costruire un progetto di gioco partendo dall’abc, non conosco scorciatoie. Anche perché se salti qualche passaggio poi la paghi dopo».
Conta anche la società. «Tantissimo. Oggi fare l’allenatore in Italia è difficilissimo, quasi impossibile. Siamo dei precari: perdi tre partite e puoi andare a casa. La credibilità è fondamentale e basta smarrirne un filo per avere problemi, perché i giocatori ti pesano, ti valutano in ogni momento. Il calciatore percepisce se la strada che vuole seguire il tecnico è per lui conveniente. E davanti alla squadra il club ti deve tutelare, sostenere le tue scelte. Non può ammettere che un giocatore vada dal d.s. o dal presidente a lamentarsi e rispondergli magari “Sì, il mister ha sbagliato”.
Come dev’essere il rapporto fra allenatore e presidente? «Per me il presidente è una figura che sta al di sopra di tutto. Io non ho mai chiamato i miei presidenti, sapere che ci sono calciatori che lo fanno è qualcosa che non si può sentire. Per il mio modo di ragionare io non posso arrivare a lui, devo relazionarmi con il direttore. Qualcuno in passato mi ha detto “Falla una chiamata ogni tanto”, ma non ci riesco. Lascio al direttore il compito di fare da tramite, sperando di trovare persone corrette, altrimenti se mi si vuole far cadere ci mettono un attimo. Io voglio fare solo l’allenatore e, per queste stesse regole, il presidente può esprimere un’opinione ma è mio dovere dire cosa penso e agire per quel che credo. Perché poi devo rispondere della mia credibilità davanti ai giocatori, e se i giocatori pensano che subisco l’influenza della proprietà, sono finito. Morto. Ci vuole quindi rispetto dei ruoli».
Qual è la sua squadra di riferimento? Guardiolismo o Cholismo? «Questione di gusti. Ma bisogna anche guardare i risultati in un arco di tempo più lungo. A me, la squadra che più è piaciuta in assoluto è il Barça di Guardiola. Roba da fantascienza, per chi ama il calcio è stato il massimo. L’Atletico Madrid? Diciamo che mi diverte meno…».
E in Italia? «Quest’anno mi sono divertito a vedere Fiorentina e Napoli ,anche il Crotone di Juric che è molto bravo. Viola e azzurri sono diventati prevedibili? È il rischio delle squadre molto codificate. È per questo che bisogna allenare più il principio degli schemi. La profondità, per esempio, di cui Spalletti è un maestro. Non dice “Tu la passi a lui e lui la mette in verticale”. No, alleni a riconoscere una situazione che non è preordinata».
La Juve non le è piaciuta? «Ma la Juve è fuori categoria, lì non conta come giochi: hanno la vittoria nel dna. È una squadra pratica e Allegri è un tecnico intelligentissimo: giusto, freddo, che trasmette serenità. E la Juve ha una struttura societaria che risolve tutti i problemi e che permette al tecnico di allenare e basta, senza disperdere altre energie».
Il Milan negli ultimi anni si è affidato a diversi tecnici debuttanti: che cosa pensa dei suoi colleghi senza gavetta? «Se il club ti sceglie non è colpa tua. E’ la società che decide e che deve sapere se quell’allenatore rischia di bruciarsi. Ci sono treni che passano mezza volta, e in certi casi mai. Giusto salirci».
Giampaolo, quale definizione userebbe per descriversi a chi non conosce come lavora? «Sono un costruttore di cose che possano rimanere del tempo ».
Qualcosa che apprezza qualsiasi presidente.
Fonte: Gazzetta dello Sport