Il fieno in cascina, accumulato dall’Inter nell’anno del Triplete, non è servito alla Serie A per scongiurare la perdita del rinomato “quarto posto”, valido un tempo per l’accesso ai preliminari di Champions League. Il campionato seguente, ossia quello targato 2010/2011, fu l’ultimo a qualificare quattro squadre nostrane alla massima competizione europea a scapito delle tre tedesche, una situazione per ora quantomeno ribaltata. Un dato emblematico di come e quanto l’Italia pallonara abbia perso progressivamente forza e appeal, al cospetto di Bundes, Premier e dell’irraggiungibile Liga.
Dimentichiamoci dunque Maldini e Zanetti che alzano al cielo la Coppa dalle grandi orecchie, dimentichiamoci una finale tra Milan e Juve, dimentichiamoci il dominio assoluto degli anni ’90: accontentiamoci piuttosto di celebrare un affannoso quanto fortunato cammino della Juve di Allegri verso Wembley, cannibalizzata poi da marziani in blaugrana. Ma rassegnamoci di vedere anche il Napoli di Gonzalo Higuain, guidato dall’esperienza di Rafa Benitez, soccombere per mano del Dnipro: già, perché l’Europa League è parte integrante di questa debacle. Il turn over e la spensieratezza unicamente italiana verso questa competizione, snobbata ancor prima di nascere, hanno posto le basi per la rimonta altrui e la caduta di quelli che una volta erano gli dei. Vero che l’ex Coppa Uefa non mette in palio soldi e prestigio della sua matrona, ma i punti ranking assegnati in base ai risultati quasi si equivalgono: confrontare a riprova le classifiche Uefa dell’ultimo lustro.
La sagacia e la preparazione tattica degli italiani non bastano più per un sport che corre veloce, velocissimo, più dei calciatori sul prato verde, e si rinnova, in modo però disomogeneo. Il calcio di casa nostra resta pertanto rispettabilissimo ma allo stesso tempo antico, non di certo poco allenante come sostengono molti soloni: se un campionato che vede l’Hertha Berlino terza in classifica è allenante, allora parliamo d’altro. Diffidiamo dunque da questo pensiero, ammonendo però gli italiani di essere pigri a non approfondire le loro capacità e la loro intelligenza verso il football. Carlo Ancellotti è l’eccezione che conferma la regola: dopo aver vinto tutto al Milan, assorbe insegnamenti al Chelsea ed al Psg, per poi trionfare al Real Madrid. Per il resto il gioco ed i fatturati inferiori rispetto a Germania, Inghilterra e Spagna, sono figli di una cultura arretrata e che non riesce a tenere il passo, neanche sul piano giuridico. Le leggi sugli stadi di proprietà e la loro costruzione ne sono una prova, come lo sono i vari regolamenti o tutti i comportamenti poco conformi di istituzioni, addetti ai lavori e tifosi.
Proiettandoci sul campo da gioco inoltre, scopriamo idee di calcio totale che appartengono solo ai nostri rivali e che difficilmente riusciamo a contrastare. Idee che non nascono dal nulla e che devono essere scovate nei meandri più profondi del calcio: soffermiamoci un attimo su Guardiola, l’allenatore che ha plasmato la squadra migliore di questi anni. Prima di allenare il Barcellona, il catalano è sia un giornalista che un osservatore: vedendo un match della Nazionale messicana, diretta all’epoca da Ricardo La Volpe, Guardiola si innamora del sistema d’uscita della palla che permetteva a quella squadra di entrare efficacemente nella fase offensiva e lo copia per intero. Sarà questo uno dei capisaldi del famoso tiki taka, anzi definiamolo pure la fonte del tiki taka, a cui unire verticalizzazioni e cambi di fascia immediati verrà quasi naturale. Ecco che, riallacciandosi a qualche riga fa, questa è la mentalità che manca al nostro calcio: cercare, studiare, provare, studiare ed innovarsi. Il fatturato, la cultura e la tecnica saranno una lieta conseguenza e faranno da cornice: niente però accade per caso.
A cura di Mario De Martino