Lutto nel mondo del calcio: Menotti fece esordire Maradona a16 anni

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Dal CdS

 

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Un giorno disse: «Il menottismo? È una sciocchezza. Esiste il capitalismo, il marxismo, il peronismo. Il menottismo mi sembra un’assurdità». È stato uno dei primi filosofi del football. Cesar Luis Menotti detto el flaco (il magro). Se n’è andato a 85 anni. Figura leggendaria del calcio argentino. L’uomo che portò per la prima volta l’Albiceleste a vincere la Coppa del Mondo. In casa. In quei tragici Mondiali del 1978. In piena dittatura di Videla, col Paese martoriato dall’atrocità dei desaparecidos. Lui che era iscritto al Partito comunista.

 

Un grande oratore della pelota. Teorico del calcio offensivo. Inseparabile dalla sua sigaretta, arrivò a fumare anche tre pacchetti al giorno. Portava capelli lunghi alla George Best. Per dare un’idea di quanto gli piacesse essere anticonformista, era un argentino che non aveva timore di dire che Pelé è stato il più grande di tutti. «Il migliore. Un alieno. L’ho avuto come compagno di squadra (ha giocato una stagione al Santos, ndr) e l’ho anche affrontato». Ma a Diego voleva bene eccome. Alla sua morte disse: «Gli hanno succhiato il sangue. Ha pagato le leggi dello show business, dover essere sempre sul palcoscenico. Era diventato un personaggio tv, aveva il suo programma, era anche bravo, ci sapeva fare, però nemmeno lì era felice. Credo fosse maledettamente difficile essere Maradona, me ne sono accorto negli anni che abbiamo trascorso insieme. Doveva accettare continui compromessi, era circondato da tanti, però credo che in pochissimi gli volessero bene». 
Tante le sue frasi diventate celebri. «Una squadra, prima di tutto, è un’idea, come un’orchestra. Oltre a un’idea, è un impegno». È stato un antesignano di quel che oggi viene definito giochismo. Per battere l’avversario bisognava giocare meglio. Senza mai dimenticare lo scopo ultimo: fare gol. «L’efficacia non è separata dalla bellezza. Il nostro calcio è sempre stato fatto di efficienza e bellezza. La bellezza non come ornamento».  

 

Come ogni uomo, viveva di contraddizioni. Le sue squadre dovevano avere il pallone: «Una squadra è uno stato d’animo. E una squadra perde la calma quando non ha la palla». Eppure in quella Nazionale ce n’erano tanti che menavano come fabbri. Da Olguin a Passarella, per fare due nomi. Quel Mondiale fu vinto tra polemiche e sospetti. Il 6-0 al Perù che consentì agli argentini di superare il Brasile nella differenza reti e andare in finale. Si è scritto di tutto. Del ruolo di Kissinger che aiutò Videla e condusse la trattativa economica per persuadere i peruviani. Del portiere Quiroga che perse la faccia e si fece segnare in ogni modo.
La Nacion, quotidiano arg entino, ricorda che una volta Menotti fu arrestato in una delle operazioni che la polizia politica effettuava per strada. Lo tirarono fuori dalla macchina per i capelli, lo gettarono a terra e misero nel mirino di un fucile a pompa. Solo in quel momento venne riconosciuto.
Difficile discernere la cronaca dalla leggenda. El flaco passò alla storia anche perché a quel Mondiale scelse di non portare l’allora diciassettenne Maradona di cui già tutto il mondo parlava. Anni dopo la spiegò così: «Ho tentennato molto, non sapevo cosa fare. Ho fatto quello che ritenevo giusto. Avevo una cotta per Diego ma era così giovane, così piccolo, che ho pensato che escluderlo fosse un modo per prendermi cura di lui». Ebbe ragione. Maradona lo allenò nel Mondiale Under 20 vinto a Tokyo nel 1979. Nel Mundial perduto malamente nel 1982. E poi a Barcellona nella stagione 83-84.
Era l’esatto contrario di Bilardo, l’altro pilastro del calcio argentino. Di loro due disse: «Con Bilardo non è un problema di calcio, abbiamo stili di vita diversi. La discrepanza sta tutta lì. Non ho intenzione di arrabbiarmi con un allenatore perché gioca con la difesa a tre». Ha allenato anche in Italia. La Sampdoria. Per otto partite nella stagione 97-98. Poi, venne esonerato.

 

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