“Accetto gli sfottò ma uno sputo no, non roviniamo la passione”: l’intervista al dottor Ascierto

Il noto oncologo ha parlato della triste vicenda che l'ha visto protagonista domenica sera al Maradona

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«Sono juventino da 52 anni. Agli sfottò sono abituato. Ma uno sputo no, mi pare che così si superi il limite. Mi ha fatto male, lo confesso». Non nasconde l’amarezza l’oncologo Paolo Ascierto, 59 anni, uno dei maggiori esperti di immunoterapia dei tumori a livello internazionale, direttore dell’Unità di Melanoma, Immunoterapia oncologica e Terapie innovative del Pascale. Noto juventino, domenica sera era allo stadio Maradona per assistere alla partita di campionato. In fila a uno dei gate della Tribuna Posillipo, con il solito sorriso e quel tratto umano che lo ha fatto diventare un volto amico, soprattutto nei giorni bui del Covid, è stato protagonista controvoglia di un episodio che lui ha stesso ha poi raccontato sul suo profilo Facebook. «Sono molto turbato per una storia che con il calcio non ha nulla a che fare».

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Che cosa è successo, professore?
«Uno sputo mentre eravamo in fila per entrare, nella zona interna dello stadio, ai varchi d’accesso alla tribuna. Uno sputo chiaramente indirizzato a me, finito tra i miei piedi, in segno di disprezzo. Un uomo più o meno della mia età. Mi ha prima ceduto il passo. Poi mi ha sputato tra i piedi. Ho capito che era una provocazione e ho lasciato perdere. Hanno visto tutti. C’era anche mio figlio Luca, juventino come me. Non volevo turbarlo. Non bisogna provare vergogna o disagio per essere tifosi di una squadra invece che di un’altra. Che amarezza, che rabbia».
Non deve essere facile la vita di un tifoso della Juve a Napoli; è la prima volta che le accade una cosa così?
«Così sgradevole, sì. Certo, gli sfottò sono all’ordine del giorno. È normale. C’è rivalità, ci sono punzecchiamenti costanti. I miei amici mi mettono continuamente in mezzo e le battute ci possono stare. Le accetto tutte con simpatia, col sorriso. Peraltro ero nella tana del lupo. Lo stadio Maradona, in mezzo ai tifosi del Napoli. Mi sarei aspettato ogni tipo di presa in giro. Vi facciamo cinque gol. Vi facciamo pigliare collera, eccetera. Va benissimo. Ma uno sputo, un segno così volgare di disprezzo, no. È troppo».
Lei come se lo spiega?
«Penso che i toni siano troppo aspri. Non ne vale la pena. Una partita di calcio è una cosa così bella. Credo che ci sia anche qualcuno che, magari inconsapevolmente, soffi un po’ sul fuoco, alimenti questa contrapposizione dura, che va oltre il limite, sembra un odio personale. In fondo parliamo di una passione sportiva, mica ci caratterizza come persone».
Non ha la sensazione che questa rivalità tra napoletani e juventini si sia inasprita molto negli ultimi anni?
«Senza dubbio. Io da adolescente, da ragazzo, non ho mai avuto grandi problemi. Non sentivo questa durezza. Potevi tifare per chi ti pareva, ci si prendeva in giro, ci si sfotteva. Ma insultare no, non sentivi il pericolo nell’esporre la tua fede calcistica, anche se diversa da quella prevalente. Mio padre era un tifoso interista, e diceva sempre che in campionato si tiene per la propria squadra mentre nelle coppe si tiene per le squadre italiane, qualunque essa sia. Oggi mi sembra perso anche questo spirito».
I suoi pazienti le hanno mai rinfacciato la sua fede juventina?
«Certo, continuamente. Ma per sorridere. Io mi occupo di tumori della pelle e non sa quante volte i miei pazienti mi hanno preso in giro sui colorati e i non-colorati. Quante volte mi hanno detto che il mio “unico neo” era la squadra per cui tifavo. Durante il Covid fecero a Soccavo un murale simpaticissimo, con il mio volto, e la scritta “Caro Ascierto, Caro Paoletto, se tu non fossi juventino, saresti perfetto”. Sono sfottò che si accettano con ironia, con gusto. Un gesto di disprezzo come uno sputo, no».
Ma lei com’è diventato juventino?
«Da ragazzino, come capita a tutti. Sono scelte emotive, che si fanno su episodi. Ricordo esattamente la data: 30 gennaio del 1972. Ero allo stadio di Catanzaro. Si giocava Catanzaro – Juventus. Un certo Mammì, del Catanzaro, a 5 minuti dalla fine, segna un gol di testa a Carmignani, portiere della Juventus. Il calciatore alzò le braccia e cominciò a correre per tutto il campo, come un ossesso. Era una esultanza strana per quei tempi, non lo faceva mai nessuno in modo così plateale. A me sembrò una presa in giro degli avversari. Vidi la delusione nei loro occhi e mi dispiacque. Così scelsi di tifare per gli sconfitti. Ironia della sorte, poi mi avrebbe detto che tifavo per i più forti. In realtà li scelsi perché furono umiliati. Del resto, il calcio è questo. Uno sport, un grande momento emozionale. Un bambino sceglie e ha il diritto di farlo, no?».
Dopo l’episodio di domenica sera ha avuto parole di solidarietà dai tifosi napoletani?
«Sì, molte. Non è mancata la vicinanza. Già sul mio profilo social, dove ho scritto dell’episodio, ho raccolto tanti commenti di sostegno. La verità è che la stragrande maggioranza dei tifosi è gente comune, mite, che ama il calcio, si diverte, si arrabbia, si accalora, che si prende un po’ in giro reciprocamente ma poi conosce il senso del limite. Questo ha mitigato l’amarezza ma comunque dico: attenzione. Non esageriamo. Abbassiamo i toni e godiamoci la bellezza del calcio. Non roviniamo una passione».
Fonte: Il Mattino
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