È saltato il banco. Il governo ha detto “no” alle agevolazioni fiscali per evitare spaccature – «non valeva la pena dividersi proprio sul calcio», riferiscono fonti di Palazzo Chigi – e ha seppellito il decreto crescita senza concedere ai club i due mesi di tempo che chiedevano per mungere dalla vacca dello Stato le ultime gocce di latte. Il clamoroso colpo di scena si è manifestato ieri alle 18.45, a consiglio dei ministri ancora in corso. Spinto in questa direzione dal leader della Lega, Matteo Salvini, l’Esecutivo ha infatti cancellato il testo che due giorni fa era finito dentro al Milleproroghe, su proposta del ministro per lo Sport e i Giovani, Andrea Abodi. Uno sgambetto politico? Chissà. La modifica dell’articolo 5, comma 9, del decreto legislativo XX sembrava dover passare senza intoppi, posticipando l’abolizione del decreto dal 31 dicembre 2023 al 29 febbraio 2024, concedendo alle società un po’ di ossigeno nel mercato di gennaio se fossero risultate “in regola con il pagamento degli obblighi fiscali, contributivi e previdenziali”. E invece, Salvini ha parlato di «provvedimento immorale», dichiarandosi pronto a non votare. Registrata anche la posizione critica di Giorgetti (Economia) e Santanchè (Turismo), l’altro vicepremier, Tajani, (presiedeva il consiglio in assenza della premier Meloni), avrebbe chiesto di accantonare definitivamente il provvedimento che dalla stagione 2019-20 permette alle società di sfruttare una tassazione sul reddito di lavoro ridotta dal 45% al 25% acquistando all’estero. Salvi i contratti in essere, mentre per i nuovi dal 1º gennaio il maxi-sconto non sarà più applicabile.
LA NORMA. Il “decreto crescita”, del resto, rappresentava un cortocircuito normativo: è una legge nata per aiutare un settore molto vasto (il mondo del lavoro) ed è stata stravolta da una categoria ristretta (il calcio) per ottenere un altro tipo di vantaggio. Va da sé che la politica, nei giorni in cui si fanno i conti, s’interroghi sul tema. Oltretutto, le società calcistiche hanno utilizzato questa norma per setacciare il mercato potendo erogare cifre più alte ai calciatori grazie a uno sconto del 50% sulle tasse per chiunque non sia stato residente nel nostro Paese nei due anni precedenti e si sia impegnato a restarci per i due successivi. Così sono arrivati Lukaku, Aouar, N’Dicka (Roma), Bisseck, Sommer, Thuram, Pavard, Klaassen (Inter), Loftus Cheeck, Reijnders, Pulisic, Okafor, Musah (Milan), Lindstrom, Cajuste, Natan (Napoli), Weah (Juventus), Guendouzi, Castellanos, Isaksen e Kamada (Lazio), giusto per restare all’ultima estate, con oltre 21 milioni di euro risparmiati dai club di cui 6 in grado di alleggerire il bilancio del Milan. Thuram, per citare il calciatore con impatto maggiore sulla Serie A, sarebbe costato all’Inter oltre 11 milioni di euro lordi di stipendio annuale, ma grazie al decreto pesa sul bilancio “solo” 7,8 milioni.
«Anziché importare cervelli, stiamo favorendo l’ingresso di piedi…» la battuta fatta in estate da Abodi. Piedi stranieri, tra l’altro, con i giovani italiani in posizione di svantaggio rispetto a coetanei di altre nazionalità che ai loro datori di lavoro costano, di fatto, la metà. L’abrogazione era comunque nei piani del governo. Non si trattava di decidere se il decreto dovesse restare o meno, ma come e quando abbandonarlo, consentendo un’uscita pianificata. Non è stato possibile e in Cdm ieri gli animi si sono surriscaldati. La premier Meloni nei giorni scorsi ha ricevuto una lettera da parte dei club di A nella quale venivano evidenziati i vantaggi della tutela (come la competitività internazionale sul mercato) e i problemi causati da una cancellazione. Il presidente della Figc, Gabriele Gravina, ha contrastato il decreto fin dal primo giorno – gli interessi delle nazionali, come detto, cozzano con questa misura – e ha continuato a essere scettico, nonostante la convinzione recente che l’eliminazione istantanea potesse generare effetti controproducenti visti i debiti dei club. Nel 2018-19, l’ultima stagione senza decreto, la percentuale di stranieri nelle rose era al 55% con un utilizzo che sfiorava il 60%. Dopo il decreto si è arrivati al 61% nei roster e a un utilizzo pari al 65,5%. In questa statistica siamo primi in Europa.
REAZIONI. «Bella e grande fesseria che è stata fatta – si è sfogato a notizie.com Claudio Lotito, patron laziale, senatore di Forza Italia attivissimo sull’argomento – Se tu hai uno straniero che paga le tasse in Italia sarà meglio di uno che non viene e non le paga no? Voglio vedere chi viene adesso… Il campionato perderà di competitività. L’Aic ha fatto di tutto per far soccombere il decreto».
Più soft nei modi, ma con la stessa dose di preoccupazione, la nota diramata in serata dalla Serie A: «C’è stupore e preoccupazione. Tale decisione, se confermata, avrà quale unico risultato un esito diametralmente opposto a quello perseguito».
La mancata proroga, secondo la Lega presieduta da Lorenzo Casini, «produrrà minore competitività, riduzione dei ricavi, minori risorse da destinare ai vivai, minore indotto e dunque anche minor gettito per l’erario». Tutto questo «lascia supporre che sia prevalsa per l’ennesima volta una visione che purtroppo non tiene conto dello straordinario ruolo economico, oltre che sociale e culturale, che ricopre questo comparto industriale». La Serie A si augura «che il Parlamento possa correggere questo errore».
FUTURO. La Commissione Bilancio e Finanze del Senato, la stessa in cui oggi Lotito gioca un ruolo di primissimo piano, a maggio 2022 (c’era il governo Draghi) aveva approvato un emendamento a firma Nannicini (Pd) che impose due limiti all’utilizzo del decreto, così da proteggere maggiormente i vivai: il primo riguardava l’età di applicazione (20 anni), il secondo la natura del contratto di lavoro (da 1 milione a salire). I presidenti di Serie A per mesi hanno fatto notare come l’introduzione del tetto (che in principio combattevano) avesse ridotto l’abuso: per la stagione 2023-24 sono stati tesserati 50 “impatriati”, meno che in passato. In caso di posticipazione dei termini, il fronte dei contrari all’abolizione sarebbe tornato alla carica chiedendo di innalzare la soglia economica mantenendola per altri 5 anni. Secondo l’Assocalciatori, però, questo avrebbe solo accentuato le disparità tra i club di prima fascia e le medio-piccole. Nel dubbio, Palazzo Chigi è andata al nocciolo della questione: addio decreto, da Capodanno. Fonte: CdS
Fonte: CdS