Esclusiva: Mazzarri al Corr. Sport: “Il mio calcio modello Spalletti, conosco tutti i suoi movimenti”
Mazzarri «Rientro: ho fatto un corso di simpatia»
È fermo da maggio dello scorso anno Autore di miracoli a Reggio Calabria, Napoli e Torino, ora è carico a molla: «Ho capito cosa dovevo cambiare» «Ho sbagliato atteggiamento, l’età e le soste mi han fatto maturare Ho studiato il bel calcio di Spalletti, ora conosco tutti i movimenti del suo 4-3-3». «L’allenatore che perde poco è quello che ha i giocatori più forti. Strepitosi gli anni col Toro e a Napoli. Ricordo che De Laurentiis all’inizio mi telefonava alle 6 del mattino, facendomi un favore»
«Senza la qualità degli uomini, gli schemi sono spesso inutili»
«La tecnica si può migliorare Un esempio recente, Bremer» «Io accampavo scuse perché non era giusto dire tutta la verità» «Quella che allenai aveva dell’Inter solo maglie e nome»
Mazzarri è cambiato. «Non sono più stressato e ossessivo come un tempo» precisa poco prima di richiamare per la settima volta e di inviare un altro paio di vocali per informarsi su quando sarebbe uscita l’intervista, pregarmi di evitare un titolo polemico e suggerirmi di riprendere le statistiche della sua avventura al Toro, e insomma non è cambiato per niente.
Mazzarri vorrebbe cambiare, a parole, ma a 62 anni, quando pensi che sarebbe ora di cambiare atteggiamento, carattere, e forse anche vita, ti accorgi che non c’è nessuna vita di scorta e niente, ti tieni quella che hai e quello che sei. E noi ci teniamo stretto Walterone Mazzarri così com’è, nella sua inarrivabile unicità.
L’intervista è in videochiamata, lui parte girandosi verso il finestrone che ha alle spalle per mostrarmi una porzione della tenuta. «Guarda un po’, riesci a vedere la piscina? La vedi? Oh no, no, ti volevo fare, ti volevo far vedere… Poi il panorama… e non lo vedi, dài».
Ti sei fatto costruire un’olimpica. Lo dirò a Malagò.
«Sì, olimpica per te, solo per te, viene Ivan e noi si fa la piscina».
Quanti metri sono?
«Venti di lunghezza e se vieni ne metto cinque in più».
E spendili, ’sti soldi.
«Diobono, non so più dove metterli, guarda. Dai, scherzo eh, scherzo».
Come si sta a casa?
«Tanto siamo io e te, posso fumare le sigarette dell’IQOS…».
Una volta beccasti una multa perché fumavi in panchina.
«Bravo, bravissimo, sono stato il primo. Con Tombolini, contro l’Udinese, la prima di campionato».
Fuma tranquillamente, ora. Sei fermo e muto da maggio 2022.
«Sì, più o meno sì, mi sembra».
Te lo ricordo io, 2 maggio 2022, esonerato dal Cagliari. E da poco, grazie a Grassani, hai risolto la questione con il club.
«Allora ti sei preparato, via».
Ventitré anni in panchina non sono pochi.
«A Cagliari ho toccato le 720 partite».
Nel 2011 eri l’allenatore dei sogni. C’era un premio così concepito e lo assegnarono proprio a te.
«Ne ho vinti tanti, di premi. Ora non me li ricordo tutti quanti, se do un’occhiata in casa c’ho un sacco di roba, però sai come sono fatto, io guardo sempre al giorno dopo, mai indietro. Probabilmente sono ancora molto giovane, solo quando sarò vecchio mi guarderò indietro».
La retromarcia la innesto io, se permetti: i quattro anni a Napoli restano indimenticabili.
«Da quando è presidente De Laurentiis sono quello che c’è stato più a lungo. Voglio solo dire che con lui ho avuto un rapporto stupendo. E se fosse stato per De Laurentiis sarei rimasto tanti anni ancora, come si usa in Inghilterra. Però, lo dissi anche a suo tempo, dopo quattro anni se non cambi tutti i giocatori o non ne cambi tanti, diventi troppo prevedibile. È anche una questione di linguaggio. Pensai che fosse quello il momento di andar via».
De Laurentiis non è esattamente un presidente facile.
«Sai cosa ti dico? Io sono uno stakanovista, quando lavoro sono un martello, anche per questo mi sono concesso delle pause. Lui mi chiamava, almeno i primi tempi, alle 6 del mattino, massimo le 6.30, e mi faceva un favore. Alle 9 ero già al campo per l’allenamento e il confronto era stato pieno, completo. Con lui avevo un rapporto diretto, gli spiegavo cosa avrei fatto, insomma trovammo una sinergia importante».
Occhio, Walter. Un giorno confessasti che ogni volta che compariva “presidente” sul display del cellulare ti veniva l’ansia.
«Questo sinceramente non lo ricordo, però può anche essere che nei momenti di maggiore pressione… Ogni tanto è necessario fermarsi. Per riflettere, aggiornarsi, analizzare i cambiamenti del calcio. “Stai attento”, ripeteva Ulivieri all’inizio. “Ti sembra che il calcio sia sempre uguale, ma se non stai sveglio ogni quattro o cinque anni c’è sempre qualcosa di nuovo”. Devo dire che aveva ragione. Quindi è possibile che a Napoli avvertissi uno stress particolare, in fondo venivo da esperienze minori, avevo fatto Acireale, Pistoiese, Livorno, Reggina, Sampdoria. Non avevo vent’anni di carriera in grado di sostenermi. Non ero abituato alla pressione di una piazza così. Anni fantastici, però: sono arrivato e subito il record di Bigon. Se non sbaglio, 16 risultati utili con una squadra che avevo preso al sestultimo posto. Una cavalcata incredibile, il primo anno, poi il secondo, poi il terzo, poi il quarto, crescevamo sempre e siamo arrivati in Champions».
Qualificati in un girone durissimo: Bayern, Manchester City, Villarreal. Usciste col Chelsea ai supplementari dopo un 4-1 al San Paolo.
«E Maggio sbagliò il gol del 5-1 all’ultimo minuto e là si perse ai supplementari fallendo tanti gol dopo una partita incredibile. Quel Chelsea la Champions la vinse. Al primo anno di Champions, quando affrontammo il City di Mancini, eravamo tutti esordienti, me compreso. Uno a zero per noi, pareggiò Kolarov, alla fine il City non si qualificò».
Era il Napoli di Grava e Cannavaro, Paolo, non Fabio.
«C’era anche Aronica. Erano tutti ragazzi senza un curriculum d’alto livello, però davano il massimo. Avevamo un’organizzazione precisa, tutti la facevano propria. Zuniga arrivava dal Siena, diventò un grande giocatore quando lo misi a sinistra. Insomma, in quei quattro anni ne ho fatte tante di cose buone. Un feeling speciale con tutti, a Napoli, resiste al tempo, me ne accorgo tutt’ora, mi vogliono bene insomma».
In seguito la Samp, l’Inter, il Torino.
«Anche col presidente Cairo la stima è ancora intatta. Sono arrivato in corsa, ho fatto benino subito, ma l’anno importantissimo è stato quello in cui ho completato la preparazione, l’anno dei 63 punti, una cosa incredibile, è tuttora il record dei tre punti. E ti dico la verità, resta il rammarico di aver solo sfiorato la Champions. Siamo arrivati in Europa League, ma se avessimo vinto a Empoli e a sei minuti dalla fine Ronaldo non avesse pareggiato a Torino, saremmo andati su noi».
Il calcio ti ha restituito tutto quello che gli hai dato?
«Un po’ di meno, un po’ di meno, ma la colpa è mia, non di altri: quando stai in un mondo come il nostro non devi pensare solo a fare l’allenatore, non basta far rendere i giocatori per poi trascurare i rapporti. A 62 anni mi rendo conto che hanno ragione quelli che, magari non conoscendomi, mi considerano antipatico. Ecco, credo di aver pagato un po’ troppo i miei atteggiamenti, la mia ritrosia. Come si dice adesso? Scarsa empatia».
Lasciatelo dire: cercavi insistentemente degli alibi alle sconfitte. Ricordo una frase, ormai storica, «e poi ha cominciato a piovere»…
«Vedi, Ivan, ho pagato l’antipatia di persone che non vedevano l’ora di attaccarmi e farmi fuori. Di Inter, quell’anno, c’era solo la maglia nerazzurra, basta dare un’occhiata alla formazione per rendersi conto che non era competitiva, non all’altezza del nome che portava. Con l’esperienza che ho oggi non avrei probabilmente accettato, anche se l’Inter è un posto prestigioso. Quando alleni un club di quell’importanza devi poter disporre di una squadra potenzialmente da primi tre posti, altrimenti preparati a essere contestato ogni tre giorni. Un grande equivoco, quell’esperienza. Anche se poi, rispetto a chi è arrivato dopo e a chi mi aveva preceduto, ho fatto meglio. Io quinto, loro ottavi. A volte sento allenatori di squadre importanti che accampano molte più scuse di quelle che accampavo io. Quando perdi non puoi dire “la squadra non è all’altezza del club, del suo blasone”. Se pensi al Napoli, dove ho fatto la storia e si perdeva poco, la quota degli alibi era praticamente azzerata. Certe etichette te le appiccicano addosso quando sei costretto a mentire, a difendere il gruppo».
Hai frequentato un corso di simpatia e comunicazione?
«Dopo tanto tempo torno a parlare, concedo un’intervista. Sono sparito perché quella era la mia volontà. Se avessi voluto allenare avrei potuto farlo, le offerte non sono mancate. In questo periodo mi sono reso conto dei cambiamenti del calcio e li ho approfonditi».
Sai cosa disse Oscar Wilde? «Ogni tuo successo ti crea un nemico; per essere simpatico occorre essere mediocre».
Non risponde. Sorride.
In che direzione è andato il calcio?
«Sono innanzitutto aumentati i tempi morti. Quando allenavo ripetevo che ci sarebbero voluti i cinque cambi perché a certi ritmi i giocatori non ce la fanno a reggere 90 minuti. E i cinque cambi sono arrivati».
Parli come se fossi stato via una vita, ma soltanto diciotto mesi fa eri al Cagliari.
«Una parentesi sfortunata, mi scuso per l’interruzione. Tornando ai cambiamenti, probabilmente tra un po’ arriveremo al tempo effettivo, perché tra punizioni, attese al Var, altre perdite di tempo e l’indicazione di recuperare i minuti perduti, non si possono far durare le partite 110 minuti. Dal punto di vista tecnico-tattico, oggi si cerca insistentemente di uscire con la palla. Tanti allenatori tengono stretti i terzini, allargano le mezzali, accorgimenti interessanti».
Una delle tue specialità è sempre stata il pressing.
«Nel Torino avevo dei giocatori, ragazzi eccezionali, che mi seguivano alla lettera. Se vai a vedere i dati, eravamo al primo posto per intensità del pressing nella metacampo avversaria, rubavamo palla dopo due, tre passaggi, praticavamo il possesso e per una squadra di media portata era un autentico miracolo del lavoro. Siamo riusciti ad arrivare settimi in un campionato dove sai benissimo che squadre c’erano proprio perché ci muovevamo a memoria. Abbiamo battuto l’Inter, il Milan, l’Atalanta che andava per la maggiore. Nel girone di ritorno siamo arrivati quarti con 36 punti e se controlli il valore della rosa… ».
Oggi, qual è il calcio più vicino al tuo ideale?
«Il Napoli di Spalletti, beh, quello piace a tutti, io il 4-3-3 non ho mai potuto farlo perché non avevo i giocatori adatti. L’anno scorso il Napoli ha trovato un’alchimia incredibile. Ha fatto un calcio bello, bellissimo. Il 4-3-3, con tutti i movimenti delle catene di destra e di sinistra, i terzini che, a volte, invece di allargarsi costruivano da dentro. Insomma, tante novità e il Napoli le ha assimilate meglio di altri. Sia chiaro, anche Pioli col Milan ha mostrato cose nuove: faceva impostare i terzini da dentro e allargava le mezzali, gli esterni».
A Napoli torneresti.
«A Napoli vorrebbero tornare tutti perché è una squadra forte, il club è diventato importante. Napoli è un posto affascinante. Se dovessi avere, come ho avuto, delle chance di rientrare, mi piacerebbe trovare gente disposta a capire il calcio che intendo fare. Mi piace insegnare, migliorare i giocatori, impostare un lavoro serio. Programmare: chiedo troppo?».
In Italia, per come siamo messi, non è semplice: oggi il risultato immediato è tutto.
«Scusa, se analizzi il mio Napoli, scopri che crescita e risultati si possono coniugare: Cavani veniva da Palermo, aveva 22 anni, non era per niente esploso, giocava spesso sull’esterno, raramente al centro, dicevano che non vedesse la porta. L’ho fatto crescere, è diventato un campione».
E come lui Hamsik.
«Era stato preso dal Brescia due anni prima, non aveva ancora fatto 12 gol, non era ancora esploso in serie A, era un ragazzo giovane da formare. E Lavezzi, uguale. Lavezzi era croce e delizia, oltretutto un po’ sovrappeso».
Dicono che gli allenatori si dividano in due categorie: quelli che lavorano per sé stessi e quelli che lavorano per la società.
«Bravo. Questo è un mio fiore all’occhiello, il 99% delle società nelle quali ho lavorato ha ottenuto dei benefici. A Livorno arrivò Lucarelli che era stato un bel giocatore, ma da un anno o due non giocava, o giocava poco, ci misi tutto un girone: 8 gol nel girone d’andata e 24 nel ritorno, giusto per dire. Anche Pazzini ha tratto giovamento dal lavoro con me. Ed è proprio grazie al lavoro fatto su Cavani e Lavezzi che al Napoli è potuto arrivare a Higuaìn».
Così sfiori l’autopromozione.
«La carriera parla per me. Ecco perché, non essendo rimasto tanto simpatico, purtroppo anche a qualche giornalista, non ho avuto quello che meritavo. Ho fatto tre anni alla Reggina, quando arrivai stava per non iscriversi al campionato, cambiammo dodici giocatori dopo la prima di campionato e ci salvammo con tre giornate d’anticipo. Il secondo anno, altri problemi economici, mancavano i soldi per l’iscrizione, venduti tutti, conservammo la categoria. L’ultimo anno la ciliegina sulla torta: dal -15 hai visto come andò a finire. In tre anni risanammo la società. Questi sono dati. Lo stesso è accaduto alla Sampdoria, presa che era dodicesima, arrivammo subito in Europa, si fece una finale di Coppa Italia, valorizzando giocatori come Maggio e Pazzini».
Superati i 60 si riesce a maturare ulteriormente?
«Sono partito da meno di zero. Ho pensato esclusivamente al campo, tutto il resto lo consideravo, più che accessorio, inutile. Pensavo che dovesse bastare il campo e ho sbagliato. L’età e le soste volute o forzate mi hanno aiutato, sono cambiato, un cambiamento naturale».
Ho letto che ti saresti proposto al Napoli.
«Il Napoli che mi piaceva tanto l’anno scorso con Spalletti me lo sono studiato a memoria. Conosco tutti i movimenti che facevano, questo fa parte di me. Ma finisce qui. Non ho sentito nessuno del Napoli. Sono balle».
Hai ottenuto più sconfitte in campo o nella vita?
«Nella vita sei tu il protagonista unico, nel calcio hai bisogno degli altri. Nel calcio perdi poche volte se hai i campioni, se invece sei costretto ad arrangiarti per portarla a casa, il segno della croce non basta. Uno schema riesce meglio se chi lo esegue ha qualità, non sbaglia lo stop, rispetta i tempi di gioco, non fa saltare i sincronismi. Questo è l’abc. Se fai tutte le cose per bene e nel momento in cui arriva la palla dove vorresti che arrivasse, quella rimbalza, cioè cade su un piede poco educato, addio buone idee. E l’allenatore che c’entra? Quando si valutano gli allenatori bisogna considerare il valore del gruppo. La tecnica si può e si deve migliorare, ma a tutto c’è un limite. A volte mi porto dietro un paio di collaboratori in più. Perché si occupino della tecnica. Ti voglio fare un esempio, parlo di un ragazzo che mi ha dato tanta soddisfazione e lo merita: Bremer. Quando arrivò dal Brasile lo feci giocare una partita di Coppa Italia, era davvero in difficoltà. Lo tenni fermo a fare tecnica per quattro mesi, senza quasi farlo giocare, è diventato bravissimo, nel ruolo uno dei migliori. Il ragazzo è serio, si metteva lì, lavorava sodo, è bravo anche con i piedi. È inutile che l’allenatore abbia mille idee, prepari schemi a destra e sinistra, se poi basta uno stop sbagliato per annullare ogni sforzo. Non c’è niente da fare: i tempi di gioco li detta la tecnica. Alla Reggina avevo Lanzaro, è tanto che non lo sento. Magari sarà anche contento di essere citato. A forza di prove e ripetute e schemi su schemi, migliorò tantissimo. Faceva dei lanci verso la seconda punta e, con due passaggi, si segnava».
Fonte:CdS