Aggiornamenti sul caso dell’arrresto della sorella di Osimhen

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Ci sono le ferite del corpo e quelle dell’anima: fanno male entrambe, ma qualcuna di più. Perché certe cicatrici restano. E Victor Osimhen, mentre aspetta di capire cosa sia andato storto a Portimão – in Portogallo – nell’amichevole tra Arabia Saudita e Nigeria, nell’attesa anche dolente di chi avverte un dolorino forse ad un ginocchio, adesso deve specchiarsi in quelle immagini che il cognato, Osita Okolo, che è il marito della sorella, lancia sui social, con tanto di accuse che meritano altro, ovviamente.

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È una questione di soldi che sporca un’altra pausa, già piena di ansie scatenate dall’infortunio di venerdì sera che l’ha costretto a chiedere il cambio e a lasciare il campo; è una storiaccia che il modernismo adagia nella cronaca di X, e non cinguettii ma urla ed immagini inquietanti, resse intorno alla macchina della polizia che porta via qualcuno – secondo Osita Okolo, la sorella di Osi – «per una vicenda che sta ancora in tribunale», che appartiene ad un vissuto complicato, frastagliato da conflitti interni, che è esplosa «con l’arresto di mia moglie e dei miei figli in custodia dalle forze dell’ordine.

Qual è il reato? Aver chiesto ad Osimhen la restituzione della mia commissione». 

 

LA FAMIGLIA. Le turbolenze del passato tornano prepotentemente, finiscono al centro di questo villaggio (e Garcia non c’entra) e approdano in Italia, pardon nell’universo, che si riempie, ahilui, di Victor Osimhen, della sua esistenza, delle sue ombre, di questa ricchezza che si trasforma in fardello o anche in faida familiare, tra carte bollate e veleni sparsi. La questione è antica, ha avuto già eco, è racchiusa in una denuncia di Okolo di qualche anno fa – dopo la cessione di Osimhen dal Lilla al Napoli, con società chiaramente estranee al braccio di ferro – c’è una sfida di mezzo milione di euro su presunti patti di quell’epoca che ha aperto un fronte e che sta ancora lì, come si vede andandosene a spasso su queste diavolerie che ormai (ci) appartengono ed alle quali non ci si può sottrarre, perché costituiscono testimonianze. Le scene che adesso si prendono le copertine virtuali (anzi, reali!): risalgono al 10 ottobre scorso, dunque cinque giorni fa, mostrano agenti in divisa, una donna che strilla disperatamente e poi didascalie di parte che restano lì, dettagli o anche no, certo non prove provate.  Fonte: CdS

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