Ci siamo visti l’ultima volta in Qatar, dove commentava le partite del Mondiale per la tv francese: all’epoca Rudi Garcia era ancora l’allenatore dell’Al Nassr e reagì con una smorfia indifferente quando gli chiesi dell’imminente arrivo di Ronaldo. Semplicemente non gli importava molto di Cristiano, aveva già la testa oltre, non sarebbe rimasto in Arabia Saudita a lungo. Il suo desiderio e la sua speranza, che ancora non erano la stessa cosa, si chiamavano Italia. Casa sua, quasi quanto la Francia e almeno quanto l’Andalusia. Voleva tanto tornare.
Non per ricongiungersi alla fidanzata romana, la giornalista Francesca Brienza, che peraltro lo ha seguito ovunque, ma per le affinità elettive con il nostro popolo del calcio, della cultura, della vita. In verità Garcia non se ne sarebbe mai andato, per di più da esonerato a metà di una stagione bislacca, e come Ulisse è tornato nella sua Itaca dieci anni dopo. Se alla Roma era stato sostituito traumaticamente da Luciano Spalletti, stavolta è lui a prenderne il posto al Napoli dopo un addio tormentato. I circuiti del tempo, le strane occasioni.
La coincidenza. Al primo incontro con Aurelio De Laurentiis è andato con lo stesso spirito del 2013. Walter Sabatini lo convocò comunicandogli come prima cosa, tanto per metterlo a suo agio, una cosa tipo «Ho voluto conoscerla ma già le dico che non sarà l’allenatore della Roma». Cambiò idea perché in quel colloquio, come immagino sia successo anche con il presidente del Napoli, Rudi seppe avvolgere e conquistare l’interlocutore grazie allo charme di un sorriso semplice, gli occhi chiari e penetranti, l’ambizione concreta.
La Roma lo annunciò il 12 giugno 2013 in un clima di contestazione di piazza, dopo la finale di Coppa Italia persa contro la Lazio: Garcia si presentò ai tifosi senza promettere nulla ma, supportato da un mercato furbo e dalla fiducia di Totti e De Rossi, vinse le prime dieci partite del campionato, incluso un derby che gli ispirò la frase del secolo: «Abbiamo rimesso la chiesa al centro del villaggio».
Dieci su dieci. Un record assoluto nella storia del club, che sognava lo scudetto. I fatti dimostrarono che era quasi impossibile battere la Juventus, capace di raggiungere i 102 punti con Conte. Ma la Roma di Garcia, che per protestare contro un arbitro proprio a Torino gesticolò come se stesse suonando un violino, seppe piazzarsi seconda, nel 2014 e pure nel 2015, conservando il diritto alla Champions. A quel punto Garcia, con il massimo del consenso, osò sfidare il patron bostoniano Pallotta con una provocazione alla Mourinho: «Non si può vincere in Serie A, la Juve fa un torneo a parte».
Apriti cielo. In una società di calcio dilaniata dai centri di potere, tra invidie infantili e rancori viscidi, Garcia venne stritolato. Resistette fino alla fine del girone d’andata, per un po’ guidando anche la classifica, ma la sua Roma ormai era svuotata e delegittimata: Dzeko non segnava, Gervinho e Salah si infortunarono nello stesso momento, il suo 4-3-3 non girava più. Venne cacciato a inizio gennaio 2016, comunque dopo una vittoria e due pareggi e con gli ottavi di Champions in tasca. Insolito. Lui si è ricostruito nella sua Francia, soprattutto al Lione dove ha raggiunto una semifinale eliminando la Juve di Ronaldo e il City di Guardiola (2020).
Poi l’esperienza del denaro abbondante e a Riad e la nostalgia del calcio vero. Ora sogna di vincerla, la Champions. E’ il suo grande obiettivo, come confidò in un pranzo all’Eur scrutando Roma dall’alto, quando l’addio era già stato elaborato e i tifosi gli si avvicinavano chiedendo lumi sul futuro. Garcia rispose solo che non avrebbe mai allenato la Lazio per rispetto dei romanisti ed è stato di parola. Come sempre.
COR
Fonte: CDS