Enzo Decaro: “La felicità è contagiosa e cambia faccia alla città. Chissà cosa avrebbe detto oggi Massimo Troisi”

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È un tifoso non accanito, ma convinto: «Certo! Giovedì sono riuscito a liberarmi dagli impegni e a partire. Non potevo mancare. Puntuale mi sono presentato alla Dacia Arena. Lo devo anche all’amicizia con Andrea Carnevale, autore del pareggio con la Fiorentina, che ci consegnò il primo tricolore nell’87 e, oggi, responsabile scouting dei friulani. Lo incontrai a febbraio e gli dissi: “Ci vedremo in maggio a Udine per festeggiare lo scudetto”». E lui? «Ma sei pazzo? Per carità, zitto!». Scaramanzia, ovviamente. «Non mi appartiene. Non sono superstizioso. Comunque, la profezia si è avverata». Prima l’irresistibile cabaret della Smorfia con Massimo Troisi e Lello Arena, poi una eccellente carriera di attore intenso e convincente, sceneggiatore, regista, docente: Enzo Decaro, insomma. Enzo Decaro e il Napoli campione d’Italia 2022-23. Impressioni, emozioni, riflessioni. «E una strana coincidenza…».

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Quale?
«È come se, tre mesi fa, parlando con Carnevale, avessi evocato il titolo della commedia che sto portando in tournée ormai da tre stagioni, “Non è vero, ma ci credo”, perfetta ingegneria comica di Peppino De Filippo, con la regia di Leo Muscato. Ora posso dire: è vero, ci credo, ed è quel che conta».
A proposito dell’87, dove festeggiò?
«Ero in India, con alcuni amici sensibili alla sua spiritualità, ma la notizia, sulle ali del vento, mi arrivò quasi in tempo reale. Mi trovavo a Calcutta, che ha addirittura sette squadre nella prima divisione. E anche là – lo confesso – andai allo stadio. Divertente!».
A Udine ha partecipato alla festa spontanea sul prato della Dacia Arena?
«No, no. Tra l’altro, ci sono stati tafferugli con gli ultrà dell’Udinese».
Poi dicono… i napoletani…
«Secondo me i tifosi locali andrebbero ringraziati».
Ringraziati?
«Ma sì! Quanti altri, compresi noi, avrebbero consentito una invasione di campo degli avversari, per quanto festosa? Il dettaglio non è stato messo abbastanza in evidenza».
Cosa le piace di questo Napoli?
«Innanzitutto, è una squadra simpatica anche alle altre tifoserie. E non è una raccolta di campioni a fine carriera, che si mettono insieme per vincere ancora qualcosa. Questi sono quasi tutti giovani di belle speranze, che possono dare inizio a un ciclo. Poi non c’è un Masaniello, un capopopolo trascinatore, di cui i napoletani hanno storicamente avuto sempre bisogno. Sì, c’è Osimhen, c’è Kvaratskhelia, ma a prevalere è soprattutto un forte spirito corale. D’altronde, perfino gli economisti, almeno i più illuminati, hanno compreso che ormai la cooperazione dà più frutti della competizione. Il Napoli è proprio un bel gruppo, costruito bene e, per giunta, evitando sprechi. Onore al merito di De Laurentiis, che ha dimostrato un non comune intuito imprenditoriale. Ma pensi… io ho addirittura avuto la sensazione che tra quei campioni ci sia dell’affetto. Se così fosse, avremmo dato una bella lezione all’intero mondo del calcio, governato dal business miliardario».
Massimo Troisi sarebbe impazzito di gioia.
«Non solo! Mi domando: chi sa che cosa avrebbe immaginato, creato, detto, a cui noi non avremmo mai pensato».
Che cosa significa o può significare questo scudetto per la città?
«Finalmente comincio a sentir parlare un po’ meno di riscatto. Basta, per favore! Una città si riscatta con la consapevolezza di poter fare qualcosa che la renda migliore di ciò che era prima. E, poi, il riscatto, soprattutto quello calcistico, è episodico. Ha vita breve, finisce. Stavolta, invece, noi dobbiamo convivere con la felicità, e non siamo abituati».
Come, come? Convivere con la felicità?
«Sì. La vittoria con cinque giornate di anticipo ci dona tante settimane per godere, ci induce a fuochi d’artificio meno clamorosi ma più sentiti, profondi e duraturi, ci costringe a una gioia endemica che per noi è una novità e, noti la coincidenza, tutto questo avviene giusto a 50 anni dal disastro del colera».
Vuol dire che il benessere, lo star bene, può essere contagioso?

 

«Non ho dubbi. Non risolve i problemi, ma predispone ad affrontarli meglio. Ci invita a un Capodanno diffuso, un po’ come accade in Brasile; quando ci andai, era fine gennaio e continuavano a far festa. Ci insegna una più sana attitudine alla positività e all’ottimismo. Ci permette di dimenticare la nostra secolare assuefazione al dolore. E questa nuova disposizione interiore può essere fonte di miglioramento per la città, che può farne tesoro. Al contrario di quelli materiali, i valori immateriali durano di più perché sono una condizione dell’essere, appartengono alla sostanza, non alle effimere apparenze. Oggi il Pil, il nostro prodotto interno lordo immateriale, è cresciuto. E, allora, usiamolo per vivere meglio, più in armonia con noi stessi, con gli altri e la città».

 

Fonte: Il Mattino 

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