L’arbitro Maresca: “Sperimentiamo, se una sola parte del corpo è in linea con il penultimo difensore…”
Fabio Maresca è una delle stelle del firmamento arbitrale italiano: vomerese, 109 partite dirette in serie A, internazionale, la finale (perfetta) di Supercoppa a Riyad tra Milan e Inter che lo ha consacrato tra i big. Ma Maresca è anche presidente della Sezione arbitrale di Napoli.
Maresca, una doppia funzione piuttosto impegnativa. O no?
«Doppio ruolo e doppia responsabilità anche perché parliamo di una delle sezioni più importanti d’Italia. Quando arbitro sono concentrato totalmente su me stesso ma da presidente devo spostare le mie attenzioni verso gli altri, ascoltare, mettere a disposizione la mia esperienza raccontando i miei errori, soprattutto cercare di avere un dialogo costruttivo con ragazzi di 15-20 anni più giovani di me».
C’è un ricambio generazionale a Napoli e in Campania?
«Sì, c’è un buon gruppo che sta crescendo, che si muove bene tra i campi di serie C e serie D. C’è anche una rappresentanza interessante e di qualità di donne. Sono circa 500, al momento, gli arbitri della Sezione, e recentemente abbiamo “qualificato” 74 nuovi arbitri che inizieranno dalle categorie giovanili provinciali. Insomma, qui c’è tutto tranne che una crisi di “vocazione” arbitrale».
Il consiglio che dà agli aspiranti arbitri?
«La cosa più importante è il percorso di crescita. Bisogna dare sempre il meglio possibile di se stessi, non avere paura di commettere un errore, ma capire come non ripeterlo: sbagliare può diventare una lezione per il futuro, solo così se ne può trarre qualcosa di positivo».
Questa stagione come procede sotto il clima della violenza?
«Purtroppo le aggressioni fisiche agli arbitri sono in aumento sia a livello regionale che nazionale. Preoccupante anche il fenomeno della violenza morale e privata, pensi che domenica scorsa hanno rubato il telefono a un arbitro mentre stava dirigendo una partita».
Le è mai capitato prima di dirigere una gara top in serie A di dover affrontare una questione da Presidente della sezione?
«Io sono sempre il presidente, anche nei giorni in cui sono designato per una partita. Normale che mi avvertano se succede qualcosa che non va ai miei arbitri, in questi due anni mi è anche capitato che il giorno di una mia gara chiamassi qualcuno vittima di un’aggressione. Devo dire che la cosa non mi ha mai distratto direi anzi che essere il presidente mi ha aiutato molto anche nella mia maturazione come arbitro».
In serie A c’è una nuova generazione di arbitri: anche loro possono insegnare qualcosa a uno come lei?
«Assolutamente. Mi piace lavorare sulla spontaneità della loro comunicazione, trovo che il modo con cui i più giovani si approcciano ai calciatori sia snello, moderno e perché no anche più efficace di come facevo io alla loro età. Mi piace il loro body language».
A Ryad, non c’era il Napoli in finale ma c’era lei a rappresentare Napoli.
«È stato un momento di grande soddisfazione, un grande traguardo all’interno di una carriera importante, nei 10 minuti che ho atteso il mio turno per salire sul palco della premiazione, ho riavvolto il nastro della mia carriera, ripensando alle persone che ci sono sempre state, agli ostacoli superati. Per raggiungere questi risultati, bisogna necessariamente passare attraverso dei “down”, dei momenti bassi. E poi saper rialzarsi e ripartire».
Il suo essere Vigile del fuoco l’aiuta in campo?
«Mi aiuta mantenere il contatto con la realtà di ogni giorno. Il mio lavoro è bellissimo e lì faccio parte di un meccanismo gerarchico in cui non sono al vertice, ma anzi alla base. Nel calcio, in una direzione arbitrale, avviene esattamente l’opposto».
A chi vuole mollare cosa dice per far cambiare idea?
«Al terzo anno di serie D non venni promosso in C. Ero pronto a lasciare. Non lo feci perché mi fidai di Farina che credeva in me. Ecco, se c’è chi crede in voi, non dovete deluderlo».
Perché si decide di fare l’arbitro?
«Può nascere come casualità ma poi diventa una grande passione. Vedo i sacrifici che fanno i ragazzi per andare a dirigere per poche decine di euro una partita in seconda o terza categoria e penso che sia una cosa straordinaria».
Il campione che gli sarebbe piaciuto arbitrare tra quelli del passato?
«Quello che mi manca di più è arbitrare le “bandiere” del calcio di una volta. Fino a qualche anno fa ogni squadra aveva un giocatore simbolo, penso a Zanetti, Del Piero, Totti, Maldini: ecco, mi manca non potermi relazionare a uno di loro, entrare in un certo stadio e trovare un capitano con 500 presenze con quella maglia, confrontarmi con campioni che portano addosso l’odore di quella propria squadra. Ora è difficile trovare calciatori che trascorrano tutta la loro carriera con la stessa maglia».
Ora il lavoro degli arbitri con la tecnologia appare semplificato?
«Trova? Non credo che semplificato sia il termine giusto. Io direi, diverso. Siamo gestori di cinque collaboratori, compresi quelli nella sala Var, abbiamo sempre la possibilità di correggere una decisione errata, è raro ormai che si possa inficiare con una nostra decisione il risultato finale di una partita. Poi, tutti noi tra andare al Var e sbagliare, preferiamo sempre andare al Var. È come avere una rete di protezione».
Si andrà verso la separazione delle due carriere, quelli al Var e gli arbitri in campo?
«Per certi versi, la specializzazione del Var è già in corso. Ci stiamo rendendo conto che concentrarci e lavorare sullo strumento sia fondamentale, è evidente che il gruppo dei Var Pro stia funzionando».
E lei cosa preferisce?
«Finché è possibile, sempre in pantaloncini e col fischietto in bocca in mezzo al campo».
Le piacerebbe avere un profilo social?
«Non è vietato dall’Aia, la preoccupazione è per i giovani: sono nati con questi strumenti ma tutto ciò che si riflette nella vita personale può, un giorno, riflettersi in quella sportiva perché tutto ciò che mettiamo in rete oggi resta lì, non viene mai cancellato. Nel mio caso, comunque, prima di aprire un profilo, dovrei chiedere il permesso a mia moglie (ride ndr) prima ancora che ai vertici arbitrali…».
Quando vede gli arbitri di football americano spiegare la decisione al pubblico è invidioso o dice: meno male che a me non tocca farlo?
«Mi affascina e non poco questa cosa. E potrebbe darsi che succederà prima o poi. Sarebbe importante essere in grado di comunicare con la terminologia più appropriata con i tifosi, usando il dettame regolamentare. Il calcio è uno spettacolo e avere un arbitro che dà spiegazioni potrebbe aumentare lo show. Noi siamo pronti a fare la nostra parte».
C’è un linguaggio definito che usate al Var?
«Sì, negli ultimi tempi ci siamo resi conto che spesso è proprio l’errata comunicazione audio alla base di un errore. Ragion per cui, stiamo cercando tutti di usare sempre le stesse frasi per aprire e chiudere un check, per avviare o fermare la comunicazione tra arbitro e Var. Insomma, abbiamo messo in piedi una check list di frasi che ci aiuta ad evitare ogni fraintendimento. Come nel linguaggio dei piloti degli aerei… Perché nel corso della vari fasi, magari concitate di una partita, ci sta che possano esserci delle incomprensioni. E mi pare che quest’anno siano molto ridotte».
A parte quelli di adesso… il miglior arbitro d’Italia?
«Difficile sceglierne uno solo. La scuola italiana è ai vertici di tutte le organizzazioni. Pensi a Collina alla Fifa, Rosetti alla Uefa, Rizzoli tra le altre cose è membro del Technical Advisory Panel dell’Ifab. Questa la dice lunga sul nostro livello».
Lobotka in una intervista al Mattino ha detto che in serie A si fischia troppo. Lei che ne pensa?
«Fischiare meno falli unitamente all’abbreviare le riprese del gioco contribuisce ad assistere a uno spettacolo più gradevole. Se fosse per noi fischieremmo il meno possibile ma mica lo decido io quanto fischiare, lo decide la partita. Comunque siamo allineati alle altre leghe, siamo attorno a 24 falli fischiati di media a partita…».
Il fuorigioco è nato come principio di slealtà: ma che slealtà è avere una spalla o mezzo piede in fuorigioco?
«Non è cambiato nulla nell’interpretazione della regola. Ciò che è cambiato grazie al SAO è la visione della virtualizzazione che viene mostrata allo spettatore che dimostra quanto millimetrico possa essere un fuorigioco sanzionato. Ma chi scrive le regole è sempre un passo avanti, pensa allo spettacolo».
E quindi?
«Si sta sperimentando l’ipotesi opposta ovvero che un giocatore possa essere considerato in gioco se una sola parte del corpo è in linea con il penultimo difensore. Questo cambierebbe radicalmente tutto, lo stile del gioco, il modo di attaccare e di difendere. Nei tornei Under 18 si sta già sperimentando».
Insomma, con un piede l’attaccante sarebbe in gioco? Sembra una svolta epocale.
«Secondo me si va in questa direzione. Proprio perché l’obiettivo è rendere le partite più spettacolari, con un numero maggiore di reti».
Ma con tutta questa tecnologia gli arbitri cosa faranno?
«La utilizzeranno sempre meglio. La figura carismatica in mezzo al campo resterà immutata e fondamentale.
Pensavamo a chissà che recuperi dopo il Mondiale. Invece…
«Il discorso recupero è legato al tempo effettivo: obiettivo comune di tutti è quello di abbreviare i momenti di ripresa del gioco e quindi non solo concedendo maxi-recuperi: questo si ottiene abbreviando i dialoghi con i calciatori, le situazioni di stallo. La serie A anche in questo è in linea anche con la Premier. Poi, ovvio, c’è la Champions e lì è un’altra musica ma anche le squadra italiane l’affrontano in maniera differente, lo spirito è quello di fronteggiarsi a viso aperto, con meno tatticismo. E ciò determina un impatto positivo sul tempo effettivo che cresce anche del 15 per cento rispetto a tutti i campionati nazionali».
Sembra, ormai, che ogni fallo di mano, come vuole la Fifa, sia un calcio di rigore?
«Non è vero, non è così. Non possiamo pretendere che i difensori giochino con le mani dietro la schiena, d’altro canto anche questa è una regola in continua evoluzione e non è facile muoversi dentro continui cambiamenti. Sappiamo bene che i calciatori hanno grande capacità di controllare il proprio corpo: quello che talvolta appare come fortuito, tanto fortuito non è. E l’obiettivo, difficile ma a cui tendiamo, è l’uniformità di giudizio».
Fonte: Il Mattino