Il professor Spalletti dà lezioni di calcio
Prima di entrare in aula, uscendo virtualmente dalla panchina e accomodandosi teoricamente in cattedra, Luciano Spalletti è rimasto solo con se stesso, ha respirato profondamente ed ha ripensato ai giorni in cui, benedetto toscano, viveva le identiche sensazioni di quegli alunni composti che stavano aspettando al di là delle pareti. E quando la porta s’è chiusa e dinnanzi a sé Luciano Spalletti s’è trovato De Rossi e Aquilani, gli allievi del Master Uefa Pro, invece che scivolare nel passato e lasciarsi travolgere dalla nostalgia dei ricordi, il sorriso ampio e la cordialità avvolgente hanno abbattuto – semmai ce ne fosse stato bisogno – quel sottile muro d’un manierismo insostenibile. Il «professor» Luciano Spalletti, nella sua versione ovviamente sportiva, ha riassaporato i profumi di casa, Coverciano, è stato accolto dal direttore del Settore Tecnico, Paolo Piani, dal responsabile dei corsi, Antonio Acconcia, e poi s’è immerso nel proprio ruolo per due ore scivolate via con quel tono diretto in cui c’è (ovviamente) finita una storia, cioé la sua, cominciata ad Empoli – ormai quasi trent’anni fa – ed approdata in questa favola chiamata Napoli, che sa tanto di lui.
LEZIONE. Per centoventi minuti esatti, il tempo necessario da dedicare ai pretendenti alla panca sparsi tra il Master Uefa Pro e l’Uefa A, Luciano Spalletti ha raccontato il proprio calcio, senza mai concedersi i toni professorali, e se ne è stato nel suo stile assai casual, e si è divertito eccome, avendo percezione di ciò che di lui pensava chi gli stava di fronte, De Rossi su tutti, che in realtà s’era sbilanciato in tv prima che diventasse l’allenatore della Spal: «Le cose che ci diceva Spalletti anni fa sono all’avanguardia anche oggi». Il Napoli, 41 punti, otto di vantaggio sul Milan, un percorso netto in campionato e una sola sconfitta stagionale, a Liverpool, nell’ultima manciata di minuti, è rimasto sospeso tra le maglie storiche che Matteo Marani, il presidente del Museo del calcio, gli ha mostrato, una ad una, stregandolo come amante d’un mondo dal quale non si stacca (quasi) mai. C’era quella di Maradona in Nazionale (Argentina-Italia dell’82), ma c’era soprattutto quella di Diego dell’87, l’anno del primo scudetto in azzurro, di quel sogno trasformato in realtà che adesso Napoli ha affidato a lui. Fonte: CdS