Una ricerca citata dal filosofo matematico Umberto Vacca tempo fa a Radio Rai, confrontava la differenza di guadagno fra le aziende che investivano nei beni strumentali e quelle che invece preferivano investire nella formazione del personale: le seconde guadagnavano quattro volte in più. Il risultato emerso da questo tipo di investimento, potrebbe essere preso a modello nell’ambito delle società calcistiche, di cui alcune sono anche quotate in borse e, secondo il personale parere, ciò trasfigura il senso primo ed ultimo dello sport, poiché – sempre secondo la mia opinione -, il “prodotto calcio non dovrebbe essere assimilato a nessun altra produzione generica di “bene di consumo” né di “servizi”, per quanto la realtà accentui la componente economica finanziaria, confermata dalla massiccia presenza delle società di fondo di investimenti internazionali o dal denaro immesso sul mercato calcistico dagli sceicchi o, in alternativa dalla vendita dei diritti televisivi che, in Inghilterra, ha raggiunto la massima espressione di profitto per l’intera Premier League. Per inciso, quest’anno i club inglesi, pur potendo contare su ingenti introiti, hanno iniziato a spendere senza far follie come negli anni passati, fra Covid e conflitti bellici. L’interessante dato menzionato dal matematico, potrebbe illuminare i presidenti dei nostri club nel perseguire “politiche societarie” sane, dovendo privilegiare la formazione all’investimento sui beni immobili come stadio e centri sportivi e commerciali ad esempio, oltre a curare il merchandaising quale ulteriore fonte di entrata. Questo vuol dire trovare un modello di formazione che plasmi “il materiale umano” non solo in senso tecnico, ma formando in primis “la persona” dei giovanissimi indigeni, su variabili immateriali quali a) l’etica, che incide nello sviluppo caratteriale e della personalità; e b) l’istruzione, che stimola la capacità di lettura costruzione della realtà, partendo dai pulcini. Far comprendere loro, ad esempio, la maggiore importanza della formazione scolastica a quella della carriera calcistica, intanto! Il piano formativo, in senso tecnico, dovrebbe essere però differenziato in quanto i pulcini e gli allievi fra i dodici/quattordici anni non dovrebbero essere sottoposti ai rigidi apprendimenti di schemi tattici, mortificando le qualità creative (dribbling) e giocate ad effetto: in campo, il principio dovrebbe essere quello del piacere, della passione, come accade per i bambini che giocano nei campetti di periferia o nella strade. In sede di formazione teorica il “rinforzo” tecnico calcistico dovrebbe coincidere con il rendimento scolastico. Non è un caso che le attuali scuole di calcio per i bambini non educhino in maniera completa ed efficace i piani morale e tecnico, anche sulla scia di visionarie proiezioni dei genitori, che “annullano” il piacere di giocare, per le eccessive aspettative. Potrebbe, essere questa, iniziale idea di formazione, una bozza di modello sostenibile ludicamente, moralmente ed economicamente e socialmente (le scuole di calcio arrivano a rette troppe care, per le famiglie). Napoli, potrebbe essere l’habitat ottimale per scoprire e formare tantissimi talenti, la cui dispersione è troppo alta, così come è elevato l’abbandono scolastico (cfr., Open, sito internet). Ci manca di formare i formatori.
A cura di Maurizio Santopietro