Un racconto di formazione allegro e coraggioso, la storia bruciante di una ferita mai rimarginata, la bellezza, la grande irredimibile bellezza di una città che ti porti comunque dentro con tutte le sue contraddizioni. L’amore senza ipocrisie e il dolore senza lacrime. La vita com’era e com’è. Semplicemente. Intensamente. «È stata la mano di Dio», per Paolo Sorrentino è il film della svolta. La sua opera più personale e intima, come ha più volte annunciato, ma anche la più emozionale e vera, contenuta nello stile, esplosiva nel sentimento del ricordo. Una storia che diverte e commuove restituendoci le atmosfere colorate e ingenue degli anni Ottanta. Tutto vero e tutto finto, perché così si fa il cinema.
Come mai ha deciso di condividere questa storia proprio in questo momento della sua carriera? «A un certo punto si fanno i bilanci, io ho compiuto cinquant’anni, oggi ho l’età giusta per farlo. Bukowski disse una volta: Gli dei sono stati buoni, l’amore è stato bello, il dolore è arrivato a vagonate. Anche per me è andata così e mi è sembrato di poterlo declinare in una forma cinematografica».
È d’accordo con chi definisce «È stata la mano di Dio» il film della maturità? «Direi che questo non poteva essere come gli altri miei film, doveva lasciare spazio alle emozioni e alla desertificazione sentimentale che ho provato da ragazzo. Ecco perché è stilisticamente semplice. Una svolta? Sono venuto a Venezia vent’anni fa con L’uomo in più, mi piace pensare che sia un nuovo inizio».
Il titolo richiama le parole di Maradona a proposito del celebre gol segnato all’Inghilterra durante i Mondiali in Messico ma anche il fatalismo della cultura popolare. «È una bellissima frase, paradossale se detta da un giocatore che non può usare proprio quella parte del corpo. Ed è una metafora riferita al caso o al divino, per chi ci crede. Io credo nel potere semidivino di Maradona. La sua figura ha molto di religioso, a Napoli apparve dal buio dei sotterranei dello stadio come da una grotta, è morto e rinato tante volte, ha molte analogie con le figure dei grandi mistici».
Ne ha mai parlato con Diego? «Purtroppo no, non era facile parlarci, non era un uomo accessibile. Non avergli potuto mostrare il film è il mio grande rammarico».
A un certo punto si disse di problemi legali sul titolo. «Non penso che Maradona sapesse del film, forse le lamentele venivano dal suo entourage».
È vero che lo incontrò a Napoli, come si vede nel film? «Sì, lo vidi, era in una Bmw all’incrocio tra via Piave e corso Europa, per caso mi trovavo lì».
Che cosa ha provato quando è morto? «Si chiama lutto e non si può esprimere a parole. Almeno io non ne sono capace».
È stato difficile girare la scena della morte dei suoi genitori? «Il bello del cinema è che se tendi a commuoverti c’è sempre qualcuno che ti richiama alla realtà e ti dice: ho capito, sei commosso, ma ora decidiamo dove mettere la macchina da presa».
Girare il film è stato un atto di coraggio? «C’è voluto più coraggio a scriverlo che a farlo. Avevo accumulato tanti ricordi, l’ho buttato giù velocemente in una pausa della serie su Papi e Vaticano. Volevo farlo leggere ai miei figli perché capissero da dove nascono i miei difetti, quei comportamenti che continuano ad essere infantili perché si sono cristallizzati in una fase cruciale dell’adolescenza. Volevo che lo sapessero e che capissero che il futuro può esserci per tutti, anche per chi parte con un blocco emotivo».
Ora si sente liberato? «Non basta un film a liberarci delle cose che ci segnano nella vita. Il cinema, come dico nel film, non serve a niente, ma distrae».
Com’è stato il suo ritorno a Napoli? «Eccitante, l’ho trovata molto migliorata. Dalla mia casa di ragazzo non vedevo il mare, ora ho avuto la fortuna di abitarne una affacciata sull’acqua e la prospettiva cambia completamente. Napoli è sempre capace di sorprenderti, quando cammini per la città è come fare un safari a piedi senza il conforto della jeep. Tutto si tiene, la bellezza del sacro, l’erotismo del profano, secondo leggi arcane e misteriose».
A cura di Titta Fiore (Il Mattino)