Lo chiamavano “il quarto d’ora” del Torino. Del Grande Torino. Si diceva partisse quando Valentino Mazzola si tirava su la maglia granata fino ai gomiti, mentre dagli spalti partivano tre squilli di tromba. Quel gesto era un segnale atteso sulle tribune del Filadelfia, lo stadio delle imprese granata. Era il quarto d’ora nel quale la squadra più forte del mondo, negli anni tra il dopoguerra e la sua tragica fine, avvenuta con lo schianto di Superga, decideva che era venuto il momento di distruggere l’avversario. Travolgerlo al ritmo di un calcio come non se ne vide più poi per lunghi, lunghissimi anni. Nessuno sapeva quando quel quarto d’ora sarebbe arrivato, come una valanga improvvisa che si stacca dal fianco di una montagna, ma tutti, in campo e sugli spalti, sapevano che, nel momento in cui fosse scoccato, avrebbe lasciato l’avversario tramortito. E tutti lo aspettavano come si aspetta un momento del quale si sa che si sarà testimoni di qualcosa di formidabile. Ci fu una volta nella quale il Napoli sperimentò cosa fosse il quarto d’ ora granata. Quell’anno, era la stagione 1945-46, gli azzurri avevano vinto il raggruppamento centro sud, qualificandosi alla fase finale che vedeva le prime quattro squadre appunto del girone centro meridionale con le quattro meglio classificate nel così detto girone “dell’alta Italia”, disputare un girone finale a otto, con partite di andata e ritorno. La guerra non aveva permesso lo svolgimento di una serie A normale, ma il calcio non si era fermato. Ed il Napoli si era trovato comunque a giocare per il titolo. Senza sapere come. La squadra attraversava un periodo di ombra, dopo lo sfavillio degli anni antecedenti la guerra, e giocare per lo scudetto era comunque qualcosa di assolutamente inatteso. Quel 30 giugno 1946, il Napoli viaggiava in trasferta, a Torino. Sul campo del formidabile squadrone granata. Quattordici punti i piemontesi, sconfitti la settimana prima a Milano, dal Milan per due a zero. Undici punti gli azzurri, che avevano distrutto a domicilio il Bari, dopo aver battuto lo stesso Milan in una partita esaltante. Tre a due in rimonta. Era la terza giornata di ritorno, e, con cinque sole partite da giocare, vincere al Filadelfia avrebbe significato sentirsi in piena lotta per lo scudetto. I soliti fremiti in città. L’attesa era febbrile. Allora, come ora. Come sempre. Giocare contro il Grande Torino, e pensare di batterlo sarebbe potuta parere utopia. Perchè leggendo i tabellini delle giornate precedenti, c’era da farsi venire il capogiro. Quattro gol a partita, la media del Toro, un rullo compressore. Ma al Napoli ed i suoi tifosi, la testa girava solo per l’eccitazione. Al gran caffè Mulassano, nel centro di Torino, dove Ferruccio Novo, il presidente creatore della leggenda in granata, era solito fare colazione di primo mattino, alcuni tifosi del Napoli, emigrati nel capoluogo piemontese, avevano preso, dall’inizio della settimana, a sfotticchiare il patrón, “Preside’ dummemeca ve dammo tre sfogliate”. “Preside’, appripara ‘a guantiera d’e babà. Nu paio normali e uno con la crema”. E giù risate. Novo sorrideva, annuiva, incassava ed andava via. Quella domenica, il 30 Giugno del 1946, alle 14 e 30, Novo scese la scaletta degli spogliatoi. Chiamò da parte Valentino Mazzola e gli chiese, ponendogli una mano sulla spalla, di non aspettare la tromba, quel pomeriggio. E di far partire il “quarto d’ora”, dal calcio d’avvio. Il capitano non domandò, nulla, annuì. Quando le squadre scesero in campo, si vide Mazzola nel cerchio di centrocampo sollevare immediatamente le maniche della maglietta fino ai gomiti. Il tourbillon partì subito. Castigliano dopo sei minuti, su assist di Gabetto, Loik con un tiro potente e poi lo stesso Mazzola. Tredici minuti e tre a zero Torino. I piemontesi infierirono, Castigliano segnò ancora tre volte, e poi nuovamente Loik. Per il Napoli la rete della bandiera realizzata da Baldi. Sette a uno. Il giorno seguente Ferruccio Novo, di buon ora, si recò al Mulassano, lasciando sul banco sette bignole alla crema e raccomandando di recapitarle ai tifosi napoletani che da lì a poco sarebbero arrivati. Era un altro calcio. Ed era meraviglioso. Sì.
Stefano Iaconis