Fair Play Finanziario ora è finito davvero. Cade l’obbligo del pareggio di bilancio: non è più sostenibile
Il Fair Play Finanziario è morto. Inutile girarci intorno, dire che sarà rimodulato, aggiornato o adattato al momento storico: il suo architrave, l’obbligo del pareggio di bilancio, non è più sostenibile perché non si può sanzionare un intero settore se nessuno riesce più a rispettarne le norme. Tutti colpevoli, nessun colpevole. Non si può imporre alle società di pareggiare i costi con i ricavi se questi sono distrutti da uno shock mondiale e asimmetrico, perché penalizza alcuni più di altri ma colpisce in pieno certi settori. Quando un’azienda perde fatturato deve tagliare i costi, ma se tutti perdono fatturato non possono tagliarli nello stesso momento, soprattutto se due terzi sono rappresentati da stipendi garantiti da contratti pluriennali.
Le società possono fare cassa vendendo i giocatori, ma se tutti i potenziali acquirenti sono alla canna del gas non sanno a chi darli. Questa è la realtà e oggi l’Uefa ne prende atto.
Però è sbagliato attribuire il fallimento del Fpf solo al Covid che, in fondo, ne certifica solo l’inattuabilità. L’Uefa dice che ha migliorato la salute del football europeo perché in dieci anni il sistema calcio ha ridotto i debiti e rafforzato il patrimonio.
Questo è vero, ma non grazie al Fpf. Dal 2009 al 2018 il giro d’affari dei club europei è quasi raddoppiato, grazie a sponsor e tv: difficilmente un’industria che raddoppia il fatturato peggiora i conti. Del miglioramento finanziario, poi, hanno beneficiato alcuni più di altri: due terzi dei nuovi ricavi hanno raggiunto i club inglesi che infatti, nel 2018, facevano il 92% degli utili del calcio europeo, mentre il resto del continente è rimasto in perdita. Anche le distanze si sono ampliate: i Big Five (Inghilterra, Germania, Spagna, Italia, Francia) fanno il 75% del fatturato. Nel 2009 ne facevano il 69%. Il modello Uefa ha anche creato un doppio binario: i club che accedono alla Champions possono contare su introiti multipli di quelli dei concorrenti nazionali che così hanno meno risorse e tagliano i costi, vendendo i giocatori migliori dilatando il gap tecnico. Ne sa qualcosa la Roma, che ha venduto negli anni i suoi campioni, o Inter e Milan che hanno tagliato gli investimenti. Di contro, il Fpf non ha moralizzato i club: gli stipendi incidono per il 64% dei fatturati, esattamente come dieci anni prima.
Il Ffp è stato strumento politico, voluto dai top club della élite europea (Real, Barça, Bayern, Man United, Liverpool ecc.) che fanno ricavi grazie al brand e a un’organizzazione in grado di produrli su scala planetaria, indipendentemente dal risultato sul campo. Studiato per sbarrare la strada ai nuovi ricchi: miliardari arabi o russi che prendono un club e vi investono a piene mani. Pensato per creare una barriera all’entrata, il Fpf non ha però impedito ai qatarioti del Psg, allo sceicco del City e al magnate russo del Chelsea di accomodarsi nel salotto. Se non serve più, i top club vogliono altro. La Superlega è la nuova frontiera, l’Uefa è in affanno. Lo sceriffo deve difendere il quartiere, se non ha armi non serve.
A cura di Alessandro F. Giudice (CdS)
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