Ceci confessa: “Diventai tossicodipendente per amore di Maradona”
Per Maradona ha fatto migliaia di chilometri in treno, da Catanzaro a Napoli, quando era adolescente. «Tutte le domeniche partivo da casa e andavo al San Paolo: scavalcavo alle sei del mattino e mi nascondevo sotto una tettoia». Stefano Ceci, poi, per Maradona si è anche drogato. Perché voleva diventare il suo amico del cuore. È una storia che racconta tra le lacrime, a 48 anni, da Dubai. Dal 2012 è stato l’assistente di Diego, l’ultimo abbraccio glielo diede dieci mesi fa, prima che scattasse il lockdown in Argentina. «Aspettavo proprio in questi giorni l’autorizzazione per partire ma ora…». Tra le lacrime e i singhiozzi ripercorre la sua storia con Diego.
Napoletano trasferitosi con la famiglia a Catanzaro, lei correva al San Paolo per le partite degli azzurri. «Ero innamorato di Maradona e un suo compagno, Bigliardi, aveva la casa proprio vicino alla pizzeria dei miei genitori. Ogni domenica era una festa negli spogliatoi del San Paolo. Poi Bigliardi andò via e io continuai ad andare allo stadio, da solo, entrando abusivamente ogni domenica».
Un ragazzo che aveva un sogno. «Diventare amico di Maradona e per questo vent’anni fa andai a Cuba, dove lui si stava disintossicando. Lo avvicinai grazie a Sotomayor, l’ex campione di atletica, e regalando mance per 400 dollari ai camerieri. Ma per diventare amico di Diego bisognava fare una scelta: seguire una strada, la sua strada, o fermarsi per tornare indietro».
E lei? «Io, che fino ad allora non avevo mai toccato una sigaretta, cominciai a drogarmi con lui perché così avrei potuto conquistare la sua fiducia. Mi vestivo come Maradona, anch’io feci il tatuaggio di Che Guevara: volevo vivere la sua stessa vita».
E come andò? «Malissimo. La tossicodipendenza mi portò in carcere, poi agli arresti domiciliari. Per sette anni non ho visto il mare per un solo giorno. Ma più che dalla cocaina dipendevo da Maradona, così mi dissero anche durante il processo. Diego passava da una crisi all’altra, i suoi ricoveri spaventavano tutti. Poi cominciò a curarsi seriamente, perse 56 chili e anch’io superai i problemi di droga. Ci rivedemmo nel 2006 per il suo compleanno. Ne abbiamo trascorsi insieme diciannove di fila, saltando soltanto l’ultimo».
Come ha fatto un tifoso a diventare segretario e rappresentante di Maradona? «È accaduto a Dubai, dove Diego era andato ad allenare dopo le tensioni con Claudia, la ex moglie che continuava a curarne gli affari. Gli segnalai la possibilità di alcuni contratti e gli presentai l’avvocato Pisani, che poi seguì la sua vertenza con il fisco. Diego disse un giorno: Mi fido, ora lavori per me. In otto anni siamo stati insieme anche ventiquattr’ore al giorno. E ho scoperto Diego, non Maradona».
Erano diversi? «Sì, molto. Maradona era il campione acclamato e conosciuto in tutto il mondo. Diego era l’uomo fragile dai profondi sentimenti. Un uomo solo, lui che riempiva gli stadi da calciatore e ha fatto affollare le piazze di Buenos Aires e Napoli nel giorno della sua morte».
Perché Diego non è stato grande come Maradona? «Perché tanti si sono approfittati di lui, indebolendolo. Dai bagarini a Blatter, dal Napoli alla famiglia. È come se l’uomo fosse morto a 16 anni quando il giovane calciatore diventò campione. Diego ha dovuto pagare il prezzo di essere Maradona».
In questi giorni di dolore si legge di una famiglia tenuta a distanza dal clan che circondava Diego. «Lui avrebbe dovuto continuare a vivere a Dubai, dove faceva una vita regolare, limitando moltissimo l’uso di alcol. Bene era stato anche in Messico. Ma tornando in Argentina le sue condizioni sono peggiorate. È stato complicato stare accanto a Maradona, ti accettava soltanto se gli dicevi di sì ma io, che l’ho accompagnato in tutto il mondo, ho saputo anche dirgli di no».
È morto in povertà Diego? «È morto da solo, tra tanti incredibili problemi, come le quattro case cambiate in un anno, in un’abitazione mancava perfino l’acqua calda e la riscaldai io nelle pentole per consentire a Maradona di lavarsi. C’erano tanti progetti in piedi legati al suo brand. Ne parlerò con chi ha gestito i suoi affari in questi ultimi anni. Mi ha fatto male leggere di litigi anche davanti alla bara».
A lei cosa resta? «Il dolore per aver perso un amico con cui facevo continue videochiamate da Dubai, dove sono rimasto a vivere. Le valigie con i doni che avrei dovuto portargli a Buenos Aires erano già pronte. E poi mi resta lei». Sposta il telefonino verso una bambina bionda, gli occhi azzurri e il sorriso largo, è la figlia di tre anni. «Digli come ti chiami». E la piccola: «Mara Dona».
F. De Luca (Il Mattino)