L’ex sindaco Bassolino: «Vedevo Napoli felice. Così ha salvato la città ferita»

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Antonio Bassolino era il sindaco di quella Napoli. Quella vincente e che, in quegli anni, sembrava avviata alla rinascita. Sociale e culturale. Ai microfoni del CdS parla di Diego Maradona: 

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Lei è stato sindaco all’epoca del cosiddetto Rinascimento Napoletano. C’è chi lega quel periodo di sviluppo della città all’euforia degli anni precedenti, quelli di Maradona«Diego è stato a mio avviso il giocatore più forte di sempre, l’autore di pezzi di calcio quasi inimmaginabili. Ma anche l’uomo che va ad Acerra a giocare per solidarietà sul fango, mettendo a rischio la propria incolumità e contro il volere del Napoli, e in quella melma segna un gol identico a quello inflitto all’Inghilterra. Il rapporto che ha creato con la città è stato così forte perché lui appariva ed era una persona buona».

Lei non era a Napoli durante l’epoca di Maradona. «Ma avevo i figli lì e facevo la spola con Roma. Nell’estate del primo scudetto mi trovavo con la mia famiglia in un villaggio turistico calabrese. Mia figlia aveva cinque anni. Timidissima com’era, sale su un palco davanti a tanti altri bambini napoletani e con mia meraviglia si mette a cantare “Oh mamma, mamma, ho visto Maradona”. Diego faceva questo effetto».

Diego o il fatto di vincere, finalmente? «Il fatto che con Maradona non soltanto il Napoli, ma tutta Napoli scopriva di poter vincere. E in anni molto difficili per la città. Quella fase storica comincia con il terremoto del 23 novembre 1980, esattamente quarant’anni fa. La Campania interna viene devastata, Napoli viene colpita. In una notte cambia tutto. La città entra in un periodo molto difficile».

Poco dopo arriva Maradona. «E fa qualcosa di impensabile. Dice, con grandissima intelligenza, che una squadra del Sud, la squadra che rappresenta il Sud, può battere i club del Nord. In quel momento sa di connettersi a un sentimento diffuso. La medesima intelligenza che usa quando l’Argentina batte l’Inghilterra e lui rende quel successo un’espressione dell’amor di patria, una rivincita storica».

Poi gli scudetti arrivano davvero. «E’ l’altro ricordo forte che mi è rimasto dentro: io che cammino con i miei figli per le strade e vedo Napoli impazzire di gioia. La prima e la seconda volta. Grazie a questa persona buona, come dicevamo, e capace di non dimenticare le sue origini, di rivedersi in coloro che soffrono e di star loro vicino. Anche quando ormai era diventato il migliore del mondo, ricco e famoso. Argentino e napoletano insieme. Soprattutto, rappresentante di entrambe le realtà».

Un personaggio unico? «Uno dei pochi di cui non si può dire: gli uomini passano, le squadre restano. Lui non è passato. Non è entrato nel mito morendo, era un mito in vita».

Ma sempre immanente. «Uno scugnizzo argentino. Napoli e Maradona erano fatti per incontrarsi. Per questo ora sentiamo di avere perso uno di famiglia. E’ più di un lutto cittadino, è un lutto in casa. Per questo trovo giusto che si dedichi a Maradona lo stadio. Quanto accaduto in queste ore è nulla rispetto a ciò che sarebbe successo se non ci fossero stati la zona rossa e il lockdown».

Che cosa sarebbe successo? «Si sarebbero ripetute le scene viste alla scomparsa di Pino Daniele. Quando, semplicemente attraverso il passaparola, si riempì in poche ore Piazza del Plebiscito».

Perché a un certo punto il rapporto tra Maradona e il Napoli s’interruppe? «Maradona non ha mai fatto male a nessuno nella sua vita. In certi momenti, ha fatto male a sé stesso. Lui si conosceva e temette a un certo punto di finire stritolato. Nell’ultima intervista si chiede: ma la gente continuerà a volermi bene? La risposta è il cordoglio di queste ore».

Lei lo ha incontrato molte volte. Come lo ricorda? «Tanto era forte quanto in alcuni momenti era fragile. Aperto, limpido nei rapporti: ciao Diego, ciao Antonio. Quando tornò a Napoli per l’addio al calcio di Ciro Ferrara era felice come un bambino di vedere lo stadio pieno. Maradona era Maradona quando giocava nel Napoli, era Maradona quattordici anni dopo ed è Maradona anche per i miei nipoti. Oggi ce ne vorrebbe un altro, ma non c’è». 

Marco Evangelisti (CdS)

 

 

 

 

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