Amarcord – Rubrica di Stefano Iaconis: “L’elfo volante”

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Roberto Filippi fu una meteora. Almeno a Napoli. Non se lo ricorda quasi nessuno. Con la sua minuscola maglia aderentissima, i suoi calzoncini perfettamente a misura, le gambette esili, i baffoni spioventi, ed i lunghi capelli senza alcun garbo, a fluirgli lungo le spalle, pareva l’ eroe elfico di una saga fantasy. Gli mancavano solo l’ arco a tracolla e la scure pendente di fianco. Poi, si sarebbe infilato sulla copertina di un libro dal titolo improbabile. Arrivò dal Lanerossi Vicenza, ala sinistra, come in quel calcio, oggi terra di mezzo, di un mondo dimenticato, veniva definito chi sfoggiava l’ “11” sulla schiena, di un attacco formidabile. Cerilli, Salvi, Rossi, Faloppa Filippi. Snocciolato a memoria. Secondo la sequenza che leggevi sulle figurine della Panini. E dalle formazioni che venivano dai campi di Tutto il Calcio. Era una filastrocca affascinante. Ed il Lanerossi Vicenza una squadra fortissima. Lo chiamavano il Real Vicenza, ed il “Menti”, lo stadio dove si esibivano quelli con la maglie a strisce bianco rosse, un fortino inespugnabile. Si piazzò secondo dietro la Juventus, quel Vicenza, allenato da Edmondo Fabbri, un uomo mite che insegnava calcio. Dopo quel piazzamento il Lanerossi subì il saccheggio delle formazioni più nobili. Rossi proprio in bianconero. Filippi in azzurro. Accolto come un acquisto da salto di qualità, Filippi giunse a Napoli nell’ estate del 1978. Lui, abituato alla provincia che faceva notizia, si trovò in una piazza che sognava il tricolore da sempre. Fu un matrimonio strano, quello tra il calciatore tascabile dai polmoni a mantice e che quando correva in lungo ed in largo sul campo ti faceva pensare ad un giro sull’ ottovolante, tanto era complicato seguirlo nel suo andirivieni da un’area all’altra, ed il popolo azzurro. Un matrimonio mai completamente consumato. Schivo e poco amante del luccichio delle luci che il capoluogo partenopeo sa da sempre offrire, non legò particolarmente con la città. Tanto da vivere per un lungo periodo all’hotel Vesuvio, trovando i prezzi degli appartamenti napoletani perfino troppo alti per la sua tasca. Filippi era un calciatore la cui modesta fisicità strideva se paragonata ad un bagaglio tecnico considerevole. Ma era coraggioso. E possedeva un piccolo talento calcistico che rendeva tesoro. Sapeva calciare con entrambi i piedi, ed era un fiutatore di assist, possedendo tempi di gioco invidiabili ed insospettabili in un giocatore la cui spesa energetica avrebbe dovuto pagare un prezzo altissimo alla lucidità. E correva. Correva. Come se non ci fosse un domani. Rotolava in terra per risollevarsi un momento dopo come posseduto da una qualche magia che lo rendeva invulnerabile. Affrontava tackles che ti facevano chiudere gli occhi, pensando che lo avresti visto frantumarsi nello scontro, e ne usciva palla al piede. Non faceva differenze. Piovesse o splendesse il sole, lui correva. Per poi inventarsi una giocata che accendeva un luce. Piccola, come era piccolo lui. Ma luminosa, come luminosa era la sua umiltà. La sua consapevolezza di sapersi elfo in un mondi di giganti. Nella foresta del calcio è rimasto una figura incantata. Un piccolo elfo volante, fatato, capace di sopravvivere nel mondo di quei giganti. L’arco a tracolla, la scure al fianco. Ed il suo coraggio.

Factory della Comunicazione

a cura di Stefano Iaconis

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