Quando il Calcio femminile sfidò il Duce. La storia di 90 anni fa
Il romanzo «Giovinette, le calciatrici che sfidarono il Duce» (Solferino) restituisce finalmente giustizia a un gruppo di ragazze i cui sogni, nel 1933, furono bruscamente interrotti dal regime
Solo un giuoco, un amatissimo giuoco. Che però Rosetta e le sue compagne, un manipolo di “tifosine” — come si diceva allora — milanesi, le prime donne in Italia a fondare una squadra di calcio, il Gfc, Gruppo Femminile di Calcio, non poterono giocare a lungo: il fascismo glielo impedì. La loro storia, a lungo dimenticata, è diventata un romanzo, Giovinette (Solferino) scritto dalla giornalista del Corriere Federica Seneghini, che ha ricostruito la loro vicenda sulla base dei documenti dell’epoca, della testimonianza dell’ultima superstite e dei ricordi dei parenti delle protagoniste. Restituisce finalmente giustizia a un gruppo di ragazze i cui sogni furono bruscamente interrotti dal regime, e mostra uno dei modi più insidiosi in cui agiscono le dittature: non solo la violenza e la repressione politica che tutti abbiamo ben presenti, ma una più ampia — e forse duratura — distruzione di possibilità di vita per le persone. Bisognerà aspettare il 1968 per vedere il primo campionato ufficioso di calcio femminile, il 1986 per avere quello istituito da una Federazione strutturata.
E pensare che Rosetta, nel ’33 ancora un’adolescente che studiava da maestra, sua sorella Marta, sarta, l’amica Losanna Strigaro, commessa, erano riuscite con la loro grandissima intraprendenza a ottenere il consenso del presidente del Coni e della Figc, Leandro Arpinati, un fascista della prima ora, che in passato aveva guidato pestaggi e scontri a Lodi, la città di origine delle sorelle Boccalini, ma che era anche un vero cultore dello sport. Aveva aperto all’“esperimento” del calcio femminile «pur riconoscendo che la sua diffusione non è opportuna», come scrisse all’epoca la Gazzetta dello Sport, e «concesso l’autorizzazione alla società milanese a praticare il giuoco del calcio. Ogni attività deve però svolgersi in privato, cioè su campi cintati e senza l’ammissione di pubblico».
L’obbligo di non essere viste non era l’unico: le ragazze furono spinte a chiedere un certificato medico a Nicola Pende, il direttore dell’Istituto di biotipologia individuale e ortogenesi di Genova, uno dei punti di riferimento per le teorie “scientifiche” dell’epoca che volevano formare i nuovi italiani sotto l’egida del fascismo.
«Io credo che dal lato medico nessun danno può venire né alla linea estetica del corpo, né allo statico degli organi addominali femminili e sessuali in ispecie, da un gioco del calcio razionalizzato e non mirante a campionato, che richiede sforzi di esagerazioni di movimenti muscolari, sempre dannosi all’organismo femminile» scrisse Pende. «Giuoco del calcio dunque, sì, ma per puro diletto e con moderazione!». Beninteso, comunque solo per le ragazze tra i 15 e i 20 anni.
La giornalista che ha ricostruito la storia: «Sarebbe bello che Milano, 90 anni dopo, le ricordasse intitolando loro una strada o un campo sportivo»
Giovanna, la terza e più grande sorella Boccalini, anche lei tifosa sfegatata dell’Inter, che sostenne e accompagnò sempre le ragazze, nonostante la sua grande passione neanche provò a partecipare: era sposata e aveva due figli, era impensabile. «Il terrore di medici e gerarchi era che il calcio potesse compromettere la fertilità delle giocatrici», spiega Seneghini. «Per questo il Gfc stabilì di mettere in porta dei maschi, ragazzini della squadra giovanile nerazzurra: bisognava evitare che le donne rischiassero di prendere pallonate sugli organi riproduttivi. E in ogni caso una volta diventate madri, lo sport era da escludere».
Che il calcio fosse considerato un’impresa poco rispettabile, e per niente femminile, è evidente dai commenti e dagli articoli dei giornali dell’epoca, riportati fedelmente nel libro, che definivano l’impresa del Gfc l’«antisport» e una «buffonata tipo americano», non calcio. Si preoccupavano di cosa avrebbero fatto le atlete durante il «periodo lunare» e rimarcavano che «l’Italia fascista aveva bisogno di buone madri, non di “virago calciatrici”». «Ho iniziato a lavorare al libro durante i Mondiali femminili di calcio e mi ha stupita», dice Seneghini, «sentire più o meno le stesse obiezioni, quasi novant’anni dopo».
Rosetta, Marta, Losanna e le altre riuscirono a giocare una partita sola. Poi intervenne il regime : «Abbiamo bisogno di buone madri, non di calciatrici»
Nel 1933, l’11 giugno, Rosetta, Marta, Losanna e le altre riuscirono comunque a organizzare la prima partita di calcio femminile d’Italia. Con un nutrito pubblico, perché nel frattempo le calciatrici erano diventate così famose e discusse da attirare appassionati e curiosi.
Fu l’unica. A capo del Coni nel frattempo era arrivato Achille Starace, gerarca del regime: «A differenza di Arpinati, non era un uomo di sport e ancora meno sapeva di quello femminile» racconta Marco Giani, storico dello sport che per primo ha portato alla luce le vicende del Gfc, e autore del saggio pubblicato nell’appendice di Giovinette. «Ragionava con criteri solo politici: lo sport doveva servire a sfornare campioni e campionesse che dessero lustro al fascismo».
Starace impose la chiusura del Gruppo femminile calcio e spedì i funzionari del Coni a saccheggiare le squadre per trovare ragazze da trasformare in atlete di altri sport: quelli olimpici o che comunque prevedevano tornei internazionali in cui l’Italia potesse farsi valere.
Le vicende finali del romanzo intrecciano il tentativo di organizzare la prima partita intercittadina, con una squadra di Alessandria che aveva tratto ispirazione dal Gfc, nonostante la repressione del regime, con la vicenda della famiglia Boccalini, accusata di antifascismo (Giuseppe, il marito di Giovanni, finì al confino).
Non è un caso: ci voleva una buona dose di incoscienza e insieme libertà — prima di tutto mentale — per fare quello che all’epoca nessuno riusciva neanche a immaginare. Il serissimo “giuoco” del calcio in fondo altro non è che un esercizio di ciò che serve anche a essere libere: forza, determinazione, coraggio di inseguire i propri obiettivi. «È la cosa che mi ha colpito da subito di Rosetta, Marta, Losanna e tutte le altre ragazze: sono state delle pioniere», dice Seneghini. «Per questo mi piacerebbe che Milano le ricordasse intitolando loro una strada o un campo sportivo». Sarebbe bello che il sindaco Beppe Sala raccogliesse l’appello.
«Amo moltissimo il giuoco del calcio, un amore tenace il mio, non un fuoco di paglia. Le mie compagne hanno tanta passione e buona volontà: non tramonteremo mai»Rosetta Boccalini
ATTACCANTE, 1933
Fonte: Corriere.it