Lo chiamavano “Ciccio”. Che a Napoli sta per Francesco. Lo chiamavano pero’ Ciccio, anche se all’anagrafe era, ed è conosciuto, con il nome di Salvatore. Salvatore Esposito. Forse al San Paolo divenne Ciccio per quel suo fisico mai troppo lineare. Anzi. Altezza da funambolo, baricentro basso, dribbling nello stretto, testa sempre alta. Geometrico. E poi, improvvisamente, geniale. Guizzante nel pensiero. Un padrone del gioco. Lo scorgevi immediatamente. Con quel modo che aveva sul campo di trotterellare in lungo ed in largo. Per fornire “l’appoggio” al compagno, e sì, anche per poter avere sempre il pallone tra i piedi. “Sentirlo”. Adorava il contatto con la sfera. Le distribuiva carezze. Le parlava. Le sussurrava parole d’amore. E ne era ricambiato. Fu una mezzala vera. Il numero dieci per eccellenza. Quando il “10” era la personificazione del genio. Tutto italiano. Vincenzino D’Amico, nella irripetibile Lazio, Rivera, nel Milan e lui, “Ciccio” Esposito. Prima di vestire la casacca azzurra, aveva vinto a Firenze. Il titolo. Lo scudetto. Facendo impazzire tutta la toscana. La Fiorentina, la “viola”, si era cucita il tricolore sul petto. Quello per il quale a Napoli deliravano da sempre. E lui a Napoli approdò, allora. Assieme ad Orlandini, con il quale costituì un duo di centrocampo formidabile. Il braccio, “birillo”, il soprannome con il quale era conosciuto il “6” partenopeo, e la mente, lui, “Ciccio”. Coronò un sogno. Era nato a Torre Annunziata, guardando capo Posillipo dal molo del porto. Sognando calcisticamente il Napoli. Divenne profeta in patria. La sua classe conquistò le menti dei tifosi. Che con il “10” hanno da sempre un rapporto speciale. Onirico. Vestì la casacca azzurra, 128 volte. Segnando poco. Pochissimo. Appena sei reti. E, paradossalmente, viene ancora ricordato non per un gol, bensì per un “quasi” gol. Per dirla alla Niccolò Carosio. Accadde nella notte di Bruxelles. Semifinale di ritorno della coppa delle coppe del ’76-’77 contro il formidabile Anderlecht. Il Napoli doveva difendere il gol di vantaggio dell’andata. Perse invece per due a zero. Una beffa. Ed un furto. Perchè Speggiorin segnò un gol validissimo dopo un sospiro del primo tempo. Fu annullato, quel gol, dall’arbitro Mathewson. Un inglese. Inspiegabilmente. Trascorsero una manciata di minuti, e “Ciccio” Esposito colpì il palo. Dalla distanza. Un lampo ad illuminare una notte buia. Oscura. Con quel suo destro che sapeva armare, all’ occorrenza. Mettendo la forza al servizio del genio. Sarebbe stato il gol della qualificazione alla finale contro l’Amburgo. Vinse, con il Napoli, la coppa Italia. Il primo trofeo ad ornare la spoglia bacheca napoletana dopo lungo lungo tempo. Era dagli anni sessanta che non si vinceva, sotto il Vesuvio. A Roma, in una notte magica. 4 a 0 al Verona, tutto negli ultimi quindici minuti. E lui protagonista. Sarebbe potuto nascere in uno dei qualunque paesi che hanno dato i natali a poeti del football. Con un nome altisonante. Invece era figlio di questa terra. Esposito. “Ciccio” Salvatore Esposito. A conferma che il genio, nel calcio, sceglie a caso. Ed abita dappertutto. Adeguandosi.
a cura di Stefano Iaconis