Ha riaperto gli occhi sul calcio, sull’amatissimo Napoli, sabato 13. «Davano la semifinale con l’Inter alla Rai. E quattro giorni dopo ho visto anche la finale con la Juve: che festa anche qui». Marco Esposito, napoletano che vive a Bergamo da quando aveva sei anni, dal 17 marzo ha un’altra casa: è l’ospedale San Carlo di Milano. «Ho girato cinque reparti, dal 3 giugno sono in quello di riabilitazione, dove Elisa, Carla e Rosa si prendono cura di me tutti i giorni». Ha lottato duramente contro il Coronavirus. «Sono al San Carlo da oltre cento giorni e a fine maggio sono risultato negativo a quattro tamponi. Devo completare un percorso di recupero fisico, conto di uscire a metà luglio. È stata durissima e non è finita».
Marco, ex titolare di un autonoleggio, è socio fondatore del Napoli Club «Bergamo Azzurra». I suoi amici giovedì non potranno entrare allo stadio, contano di incrociare Gattuso e gli azzurri davanti all’albergo. «Io, invece, spero di poter presto andare nella sede del club per assistere alle partite in tv. Dovrò muovermi con le stampelle. Ne ho viste di peggiori in questi cento giorni, per me è appena cominciata la seconda vita». Il 3 marzo qualche linea di febbre, così cominciò a rovinarsi la prima vita. «Il medico mi disse di prendere la tachipirina». Sette giorni dopo, un focolaio polmonare. «Non bastò l’antibiotico. E il 17 mi portarono in ospedale perché avevo saturazione bassissima e febbre alta: deliravo. Non c’era posto a Seriate e così mi trasferirono al San Carlo di Milano. E qui ho lottato contro la morte. Due settimane in coma e due volte i medici telefonarono a mia sorella Monica per dirle: non sappiamo se Marco riuscirà a superare la notte».
Le preghiere di Monica, della moglie Rubi Marlene e dei figli Genesis, Gerardo e Angelo. E poi i video di incoraggiamento degli amici del club azzurro. «I medici decisero di curarmi con la penicillina, anche se era stata riscontrata un’allergia. Dissero ai miei familiari: è l’unico modo per provare a salvargli la vita. Per fortuna l’allergia non era così grave e ho resistito». Fuori dal coma, ma con il fisico a pezzi. «Non riuscivo neanche a muovere un dito». E il calcio, l’amatissimo Napoli? «Non ci pensavo. Non potevo pensarci. Nel giorno del mio compleanno, il 26 marzo, ero in coma». Marco vive a Bergamo da quand’era bambino, non ha l’accento napoletano. Il Coronavirus lo ha allontanato per un po’ dal mondo. «Ma alla fine mi ha anche aperto una porta sul futuro, perché ho deciso cosa farò nella mia nuova vita: apro un negozio di prodotti campani, mozzarella e altro».
Il Napoli giocherà tra due giorni nella provincia più devastata dalla pandemia: seimila morti. «Io sono a Milano da tre mesi e mezzo, in quest’ospedale dove vi sono medici e infermieri dal grande cuore, tanti saliti dal Sud per dare una mano. I bergamaschi sono forti ma stavolta sarà difficile riprendersi anche per loro». La conquista della Coppa Italia gli ha regalato un sorriso. «Magari sti ragazzi e Gattuso riuscissero a battere l’Atalanta… Quando riapriranno gli stadi, andrò a una partita a Napoli. Con Ancelotti è andata male, ora è tutto cambiato e potremmo anche fare il grande colpo a Barcellona». Ha visto le immagini della festa in piazza a Napoli dopo la vittoria della Coppa Italia. Lui che è finito in ospedale per il Coronavirus non ha avuto voglia di sgridare quei ragazzi? «Li vedevo e immaginavo cosa avrebbero detto al Nord, quanti aspetti negativi sarebbero stati sottolineati di quella festa spontanea. Il solito razzismo. Questo dramma dovrebbe portare un po’ più di umanità ma io non m’illudo: i razzisti continueranno ad essere razzisti».
Le preghiere di Monica, della moglie Rubi Marlene e dei figli Genesis, Gerardo e Angelo. E poi i video di incoraggiamento degli amici del club azzurro. «I medici decisero di curarmi con la penicillina, anche se era stata riscontrata un’allergia. Dissero ai miei familiari: è l’unico modo per provare a salvargli la vita. Per fortuna l’allergia non era così grave e ho resistito». Fuori dal coma, ma con il fisico a pezzi. «Non riuscivo neanche a muovere un dito». E il calcio, l’amatissimo Napoli? «Non ci pensavo. Non potevo pensarci. Nel giorno del mio compleanno, il 26 marzo, ero in coma». Marco vive a Bergamo da quand’era bambino, non ha l’accento napoletano. Il Coronavirus lo ha allontanato per un po’ dal mondo. «Ma alla fine mi ha anche aperto una porta sul futuro, perché ho deciso cosa farò nella mia nuova vita: apro un negozio di prodotti campani, mozzarella e altro».
Il Napoli giocherà tra due giorni nella provincia più devastata dalla pandemia: seimila morti. «Io sono a Milano da tre mesi e mezzo, in quest’ospedale dove vi sono medici e infermieri dal grande cuore, tanti saliti dal Sud per dare una mano. I bergamaschi sono forti ma stavolta sarà difficile riprendersi anche per loro». La conquista della Coppa Italia gli ha regalato un sorriso. «Magari sti ragazzi e Gattuso riuscissero a battere l’Atalanta… Quando riapriranno gli stadi, andrò a una partita a Napoli. Con Ancelotti è andata male, ora è tutto cambiato e potremmo anche fare il grande colpo a Barcellona». Ha visto le immagini della festa in piazza a Napoli dopo la vittoria della Coppa Italia. Lui che è finito in ospedale per il Coronavirus non ha avuto voglia di sgridare quei ragazzi? «Li vedevo e immaginavo cosa avrebbero detto al Nord, quanti aspetti negativi sarebbero stati sottolineati di quella festa spontanea. Il solito razzismo. Questo dramma dovrebbe portare un po’ più di umanità ma io non m’illudo: i razzisti continueranno ad essere razzisti».
Il Mattino