Amarcord – Rubrica di Stefano Iaconis: “Io, la Juve e Freud”

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Il football è argomento da psicanalisi. Una ammaliante sirena il cui sussurro è il fruscio di un pallone che rotola su un prato verde, che ti attira sugli scogli della sua perversa magia. E ti distrugge. Mandandoti in analisi. Tutti hanno la loro partita freudiana, nascosta nel carnet di emozioni da stadio. Tutti. Anche io. La partita che mi ha condotto sul lettino del medico dei pazzi. Pazzi della maglia azzurra. La partita che iniziò una rivalità feroce, tra me ed il bianco e nero. Era dicembre. Napoli si apprestava a vivere il suo solito Natale dalle mille emozioni. Le luci della sera si intersecavano con le luci delle feste da lì a venire. Il Napoli viaggiava fortissimo. Era secondo in classifica, con 12 punti, due in meno della capolista. Quella Juventus che alla domenica sarebbe stata ospite al San Paolo. C’ era un fermento nell’ aria percepibile. Vincere avrebbe significato l’aggancio. Ed il Napoli di Vinicio era oramai maturo per il grande assalto alla odiata, arrogante, detestabile vecchia Signora. Aveva fatto le prove generali l’anno addietro. Invero io non avevo particolari ansie. Nelle mie due precedenti sfide ai piemontesi, a Fuorigrotta, ero risultato imbattuto. Uno a uno due anni prima, ed un bel due a zero rotondo, la stagione precedente. La rete di Canè ed il rigore di Clerici ancora li conservavo freschi nella memoria. Mi restarono, invece, eternamente impressi, quei quadrati, listati a lutto, che esibivano dietro le maglie a strisce i giocatori della Juve. Quadrati nei quali erano contenuti i numeri. Incominciò in quell’ istante. E quando mio padre mi sussurrò, all’ ingresso in campo delle squadre, indicandomi Parola, l’allenatore bianco nero: “Vedi? Parola. Quello della forbice sull’album della Panini che hai a casa”, ecco, ebbi un presagio di qualcosa che non avrei più dimenticato. Se avessi saputo cosa mi stava per accadere, e cosa avrei patito nel corso degli anni, sarei fuggito. Al galoppo. Ho ricordi nitidi di quella partita. Vengono fuori, ogni volta che li evoco, cioè ogni volta che il Napoli incrocia il ferro con i dannati torinesi. Prepotentemente. Sghignazzano come demoni calcistici dalle code attorciate. E gli occhi luccicanti. Puntualmente vestiti di bianco e nero. Causandomi palpitazioni. Capogiri. Respiro affannoso. Dura sempre 90 minuti la crisi. Ho ricordi indelebili. Di un Napoli tritato da una macchina da gol spaventosa, che fece marameo alla tattica olandese del fuorigioco di Vinicio. Mutuata dal mondiale estivo nel quale la squadra di Rinus Michel aveva incantato il mondo. Parola, fece il mago della tattica, e mise nel sacco Vinicio e la sua difesa. Semplicemente, arretrò Bettega di venti metri, portando Bruscolotti fuori zona. E facendolo partite da lontano. Tra le maglie larghissime della retroguardia azzurra. Il resto lo fece Altafini. In attesa di infliggerci il colpo di grazia in aprile. Al comunale. Al minuto novanta. Decisivo. Da doppia seduta analitica. Il brasiliano dapprima su cross di Cuccureddu, da due metri, infilò di testa. Poi si procurò un rigore, dubbio assai. Così tanto dubbio da far si che io maledicessi la famiglia dell’arbitro Agnolin fino alla quinta generazione. Damiani lo realizzò. Ed ancora Altafini diede alla funambolica ala destra la comoda palla dello zero a tre. Alla fine del primo tempo il Napoli aveva tirato in porta una volta sola. Con Braglia. Eravamo stupefatti. Lo stadio un cimitero. La grandinata proseguì impietosa nella ripresa. Bettega fece il quarto, scappando via dall’ off side azzurro (sul filo sì, sul filo no, il Var era ancora uno spermatozoo in embrione). Clerici mise una pezza dal limite, intiepidendo il San Paolo. Ma poi segnò Causio. Clerici, giocando da solo, nella ripresa, fece doppietta, e poi accadde che il signor Agnolin, in un impeto di rimorso, ci omaggiasse di un rigore. Netto fallo di mani di Morini. Ripeto: netto. Solare. Lo stadio si destò. Un uomo vicino a me disse: “Guagliò, se El gringo segna, pareggiamo”. Tanta era la forza che ispirava quel Napoli. Invece Clerici mise la sfera a lato. Braglia cadde in area un attimo dopo (era rigore, ancora e ancor più netto, oh sì, ma per quel giorno Agnolin da Bassano del Grappa aveva dato) e sul capovolgimento di fronte Viola chiuse il set. Fu allora che dai distinti piovve una bottiglia. Centrò in pieno il guardalinee sotto quel settore. E la partita fu sospesa. Mancavano tre minuti. Mi ricordo il viso di mio padre. Mi guardava. Senza parlare. Impotente. Ho rivisto quel viso, ogni volta che abbiamo giocato contro “quelli là” molte altre volte. Ci chiedevamo, muti, il perchè. Non lo abbiamo mai compreso. Nessuno è mai stato capace di spiegarmelo. Nemmeno l’analista.

Factory della Comunicazione

a cura di Stefano Iaconis

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