Ottavio Bianchi ha scelto maggio – giovedì 14 – per l’uscita dell’autobiografia «Sopra il vulcano: il campo, lo scudetto, la vita», scritta con la figlia Camilla, giornalista dell’Eco di Bergamo che ha raccolto i ricordi del padre. Abbiamo estrapolato uno dei tanti capitoli:
Nel giorno della presentazione a Napoli, estate dell’85, un cronista chiese a Bianchi se il salto dalla provincia a Maradona non lo turbasse: rispose che si sentiva perfettamente a suo agio perché, dopo aver salvato Avellino e Como, si apprestava a guidare una squadra che aveva lottato per non retrocedere nel primo campionato con Diego. L’allenatore mise subito un argine tra sé e il mondo esterno, indossò quella corazza che lo avrebbe accompagnato per quattro anni. Con quella maschera affrontò un ambiente che aveva conosciuto quand’era centrocampista alla fine degli anni Sessanta: la Napoli ammaliatrice lo preoccupava e lo spiegò con chiarezza al presidente Corrado Ferlaino e al manager Italo Allodi nel segreto incontro milanese in cui vennero poste le basi per costruire la squadra dello scudetto. Ma quella maschera coprì a malapena la felicità di Bianchi nel giorno dello scudetto («Abbiamo fatto un buon lavoro. Sono soddisfatto», una manciata di parole al microfono di Giampiero Galeazzi appena finita Napoli-Fiorentina) e la sua ira un anno dopo, quando i cronisti gli chiesero di commentare il comunicato letto da Garella contro di lui, l’allenatore con cui gli ex campioni non avevano rapporti. Era furioso ma rispose con ironia: «Cosa faccio ora? Vado in albergo a mangiare».
Di quello scudetto perso nell’88 s’è detto tanto, anzi troppo. Quante perfide ricostruzioni. Le minacce della camorra per le scommesse? Un patto calcistico-industriale con Berlusconi? L’inizio della rivolta dello spogliatoio contro l’allenatore? Il crollo fisico del Napoli di fronte al vigore atletico del Milan? Bianchi dà questa interpretazione: «Quando la strada sembrava spianata e il risultato acquisito, è iniziata la corsa al rinnovo del contratto». L’ex allenatore («Ho lasciato questo mondo prima dei sessant’anni perché non era più il mio») aveva avvisato Ferlaino: «Appena vinto lo scudetto fate quello che volete, ma non prima: sarebbe estremamente pericoloso». Ma poi – spiega oggi alla figlia cronista – qualche giorno dopo vide il presidente annunciare in tv il rinnovo di Maradona e a quel punto lo spogliatoio implose, con altri calciatori che pretesero i prolungamenti anche dei loro contratti, mentre il capitano scivolava verso l’abisso. L’uomo più serio del clan argentino, il preparatore atletico Signorini, avvertì Bianchi: «D’ora in poi avrà grandi problemi con Diego». Il campione stava precipitando nell’abisso della droga. Per la prima volta l’allenatore rivela un loro duro confronto. «Un giorno, non ricordo cosa avesse combinato, gli dissi che avrebbe fatto la fine di un pugile suonato, allo sbando. Vuoi proprio finire come Monzon? gli chiesi a muso duro». Monzon, uno dei miti argentini. Campione del mondo dei pesi medi, si rovinò dopo aver chiuso con la boxe. Fu condannato a 11 anni di carcere per avere strangolato la moglie Alicia. Uscito per buona condotta, morì a 52 anni in un incidente stradale: l’auto sbandò nella corsia di sorpasso, in quello schianto c’era tutta la sua folle vita. E Diego come reagì? «Lei ha ragione, mi rispose, ma io voglio vivere la vita con il piede che spinge sull’acceleratore. In quel momento mi resi conto che non c’era niente da fare».
A cura di Francesco de Luca (Il Mattino)