Il Vangelo secondo “Giovanni” Malagò: “Al calcio italiano manca un piano preciso”
Il presidente del Coni intervistato dal Corriere dello Sport
Ai microfoni del CdS Giovanni Malagò analizza il momento del calcio italiano che tenta di ripartire nonostante la pandemia Covid-19.
«Ho cambiato anche quella» mi dice Giovanni Malagò. «Pensi che io dorma? Che dici? Dopo sei mesi di presidenza ho sostituito anche il logo, il vecchio candelabro, con lo scudetto bordato in oro e i cinque cerchi olimpici, assoluta distinzione».
A proposito di scudetti, presidente, sia chiaro e definitivo: lei è pro o contro la ripartenza del campionato? «Allora, serio… Si sta generando un dibattito estremamente confuso e fortemente divisivo che non può portare a qualcosa di buono».
Fin qui siamo d’accordo. Provi a fare un passo avanti.
«Ne faccio uno indietro, invece. Fino al peccato originale».
Quale dei tanti?
«Senza voler fare polemica, per carità, io avrei chiuso dentro una stanza la Federcalcio, la Lega di A, l’Assocalciatori, gli allenatori, le televisioni e gli organismi internazionali, Fifa e Uefa, e non li avrei fatti uscire finché non avessero prodotto un documento condiviso. La stessa cosa per B e Lega Pro. Tu cosa sei disposto a lasciare sul tavolo se la stagione non si conclude? E tu, televisione, il 5, il 10, il 15 per cento? Tu, federazione, sei pronta a partecipare a un fondo di solidarietà? E voi, calciatori, a quanta parte dello stipendio rinunciate? Fifa e Uefa, che fate, attingete alle vostre riserve?, come contribuite? Ti rendi conto che a tutt’oggi le televisioni che tirano fuori 1 miliardo e quattrocento milioni non hanno nemmeno un pezzo di carta della Lega sulla base del quale sviluppare il tema dell’immediato? Spostiamo avanti di un anno la Melandri? Spalmiamo sulle prossime stagioni? Niente: si procede a vista, per ipotesi, con una conflittualità che danneggia qualsiasi progettualità. Gravina lo sento tutti i giorni, ho letto con particolare attenzione la sua intervista a Repubblica, comprendo le difficoltà del momento e capisco che voglia portare a termine la stagione. Parla di luglio, agosto, settembre, ottobre, addirittura della prossima Serie A articolata in due gironi con i playoff e i playout. Quello che manca è un piano preciso, chiaro, praticabile e convincente. Logistica, transportation. Si parla solo di tagli degli stipendi dei calciatori, ovvero si è partiti dalla fine o quasi, di accordi in alto mare, e adesso di un protocollo medico che dovrà passare al vaglio dell’ISS».
Lo devo frenare. «Sto andando a braccio» precisa, poi aggiunge: «Mi devi credere, questa è l’ultima volta che tratto il tema della ripresa del calcio. Purtroppo lo faccio con la persona sbagliata (sorride e solo per un istante riconosco la politica delle pacche sulle spalle). Se vuoi ti mostro le 150 pagine di rassegna stampa raccolte negli ultimi 15 giorni. L’unico attacco che ho ricevuto, il tuo. Mi avranno telefonato in ottomila, il giorno di Pasqua, per dirmi “non gli devi più parlà”. Io invece ti parlo per il rispetto che porto al tuo editore, al giornale e a te… Due sono le fasi».
La prima?
«La ripresa dell’attività. Banalmente, l’allenamento. Spero che il Governo la autorizzi il prima possibile. Mi auguravo che si potesse già partire dopo Pasqua, poi il 27, ma hanno convenuto che la data giusta sia il 4 maggio. Superfluo sottolineare che è imprescindibile il sacrosanto rispetto dei parametri indicati dai medici, accesso, distanze e altro. È necessario rimettere in moto la macchina atleta che non può restare ferma per troppo tempo a prescindere dalla data dell’impegno agonistico. Sei mesi, otto mesi, un anno e tre mesi per gli olimpici. Attenzione, però, quando parlo di ripresa degli allenamenti la intendo aperta tanto all’atleta individuale quanto alla squadra, sempre che lo sport di riferimento lo consenta. Mi sono opposto all’ipotesi di far cominciare prima gli sport di squadra perché nel mio ruolo ho il dovere di tutelare tutte le federazioni e le 387 discipline sportive di Casa Coni”.
Immagino che lei ne abbia parlato al ministro Spadafora. «Naturale. Ma sempre nel rispetto di ruoli e competenze. A differenza di tutti i miei predecessori, nessuno escluso, io ho sempre lasciato ampia autonomia decisionale alle 44 federazioni, questo lo puoi scrivere. Diverso è il discorso che riguarda lo svolgimento delle partite, e qui siamo alla seconda fase. Mi sembra di essere stato sufficientemente chiaro quando ho elencato i punti di confusione che hanno caratterizzato il mese di marzo e questi primi giorni di aprile. Ci sono in ballo troppi interessi divergenti, chi ha paura di perdere la categoria, chi di rimetterci una montagna di denaro. Siamo gente di mondo, è comprensibile, umano».
Ho letto le dichiarazioni della Pellegrini e non le si può dare torto. Ma più che al calcio – come viene contrabbandato da alcuni giornali – le accuse di Federica sono rivolte a chi ha dichiarato che «lo sport chiude»; a chi parla solo di calcio per avere un ritorno su giornali e tv; a chi non pone il problema degli atleti professionisti di altre discipline e degli olimpionici. Con chi se la prende, secondo lei? Con il presidente del Coni? «Non scherziamo. Ti posso garantire che la Pellegrini e tutti gli altri atleti che sento ogni giorno sono molto risentiti con chi parla esclusivamente dei problemi del calcio trascurando quelli di sportivi che hanno esigenze e urgenze identiche, se non addirittura superiori. Prendiamo Federica: abita con il suo allenatore a trenta metri dalla piscina dove si allena. Mi devi spiegare che grado di rischio potrebbe mai correre se domattina potesse rimettersi a nuotare. E la Goggia che deve recuperare dall’infortunio al braccio?».
L’eccezione che viene posta dal calcio è che il sistema Serie A è un’industria che produce miliardi e mantiene il mondo dello sport.
«Gente come Federica si mantiene senza l’aiuto del calcio. Lo sport non può essere e non è soltanto il calcio di Serie A. Sono le centinaia di migliaia di persone che lo praticano nei circoli. In Italia ce ne sono 130 mila e hanno tutti problemi economici rilevanti a causa della pandemia. Il danno che subiranno queste 130 mila realtà è notevolmente superiore a quello del calcio. Mi tornano in mente le parole di mio padre, davvero un gran signore, e ti ringrazio per averlo ricordato, quando anni fa dovemmo affrontare una situazione di notevole complessità con la concessionaria di auto. Te la faccio breve: avevamo investito parecchio nell’attività di autonoleggio, il meccanismo del buyback consentiva al cliente, grazie agli ammortamenti e a un mercato assai vivace, di acquistare l’auto a fine contratto e di rivenderla guadagnandoci parecchio. Improvvisamente ci ritrovammo costretti a riscattare tutte le macchine a – ti dico una cifra – 15 miliardi di vecchie lire e a rivenderle a un prezzo notevolmente inferiore. Ci rimettemmo parecchio, ma questo ci permise di fare cassa e ripartire. Ricordo che allora mio padre mi disse: “Giovanni, meglio feriti che morti”. Una considerazione che oggi può valere anche per il calcio».