Amarcord – Rubrica di Stefano Iaconis: “El Gringo”

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Sembrava uscito dalla matita di Bonelli. Un Tex Willer prestato al calcio. E se Sergio Leone avesse avuto la ventura di incontrarlo, prima di Clint Eastwood, ne avrebbe fatto il protagonista dei suoi Western all’italiana che tanta fortuna ebbero. Perché non era difficile immaginarlo su un cavallo, tenuto al passo, con il sole alle spalle, mentre entrava in un paese fantasma per un duello all’alba. Sergio Clerici, in arte “El Gringo”, sarebbe stato perfetto in quei ruoli. Il ciuffo eternamente gettato sulla fronte, in maniera un po’ scomposta, le gambe larghe, l’andatura sorniona, sembrava sempre in procinto di estrarre le colt 45 da un immaginario cinturone legato in vita, ed aprire il fuoco sul malcapitato di turno. Un fuoco infallibile. Le sue colt erano i piedi. Terribili ed infallibili strumenti di precisione al servizio del gol. Clerici era un raffinato del gioco. Un catalizzatore capace di intuizioni e che sotto porta sapeva essere letale. Sinistro e destro, senza differenza. Con il ciuffo impertinente, e l’aria strafottente. Due stagioni a Napoli, ventinove gol. Nel Napoli più affascinante e straordinario che si ricordi dalle nostre parti. Dopo quello di Maradona. Forse superiore a quello recente. Non fosse altro che per la assoluta mancanza di nomi di prestigio. Vinicio creò un piccolo miracolo. Con poco. E di quel poco Sergio Clerici fu il leader indiscusso. Assieme a Iuliano. Aveva il tocco brasiliano, Sergio. E la capacità di sprigionare una potenza fisica nei sedici metri rarissima. Sapeva girarsi in un fazzoletto, con movimenti rapidi, nascondendo il pallone fino all’ ultimo con il corpo, e disegnando traiettorie dirette verso angoli impossibili. Come un pistolero, stava lì, immobile, e poi estraeva dalla fondina. Rapidissimo. Alla velocità della luce. Fu rigorista impareggiabile.E nel gioco aereo sapeva difendersi usando l’arte della “cazzimma”. Gomiti aperti, e spinte da ariete. Ti travolgeva. E ti lasciava I segni. Perché aveva coraggio. Da vendere. Ogni sudamericano nella città di Partenope ha avuto la sua storia. Breve o longeva, ma comunque intensa. Clerici è un nome che risuona sulle bocche dei tifosi. Come quei nomi tramandati intorno ai fuochi, nelle notti di bivacco. Nel West. Clerici. Un nomade del football. Dal Lecco, dove fu cannoniere del torneo, a Napoli. Poi a Milano e Bologna. In un su e giù per la penisola a deliziare le platee con le sue giocate da artista un po’ naif. Giocoliere, funambolo, uomo cannone. Uomo cannoniere. Pistolero del prato. Mai clownesco. Rideva poco. Il samba non gli apparteneva. Pareva uno di quei “guappi” che giravano, mani in tasca e cappello floscio sulle ventitré, il coltello sempre pronto all’azione. Era un duro, le riceveva e le dava, in egual misura. Con lo sguardo attento. E le dita svelte. Pronte ad estrarre le sue colt infallibili. Sergio Leone e Bonelli gli avrebbero disegnato e drappeggiato addosso un “poncho”. Sarebbe stato perfetto, El Gringo. Nel far West calcistico di un’ epoca irripetibile. Dove vissero giocatori irripetibili ed indimenticabili. Come Sergio Clerici. Il centravanti che, quando entrava sul prato, faceva riecheggiare colonne sonore nella fantasia. Ennio Moricone lo avrebbe amato.
a cura di Stefano Iaconis

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