Amarcord – di Stefano Iaconis: “Fanfulla, il giaguaro”

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Gianni Brera, il “vate”, lo chiamava Fanfulla. Prendendo a prestito il nome dell’ eroico condottiero Fanfulla da Lodi, immortalato nel romanzo di D’Azeglio “Ettore Fieramosca, o la disfida di Barletta”. Ma per tutti quelli che amavano il football e le sue gesta, narrate dentro piccoli eroismi su un prato verde, era il “giaguaro”. Luciano Castellini ha segnato un’ epoca. Scrivendo pagine di uno sport reso popolare da voci custodite solo nella fantasia, quella di Ameri, di Ciotti, o dalle cronache di penne della carta stampata come Maradei, o lo stesso Brera. Voci, parole, letteratura evocata dalla radio e dall’odore delle pagine. Mezzi di comunicazione perfetti, l’incastro assoluto per raccontare quel calcio. Ed i suoi eroi. Come Luciano Castellini. Il giaguaro Fanfulla, protagonista per un decennio, di un ruolo prestato alle evoluzioni mai scontate del viaggio dentro la fantasia e la suggestione che ne deriva, come nessun altro potrebbe, quando si parla di calcio. Quello del portiere. Castellini stava ai pali come Emilio Salgari all’avventura. Un corsaro. Un avventuroso Tremal Naik permeato dal coraggio di un Fanfulla da Lodi e dall’agilita’ di un felino. Un giaguaro. Sui poster sbilenchi delle stanze di ragazzini affascinati ed in qualche bar di provincia, sulle cui mura campeggiano foto d’epoca che fa pionierismo d’annata, se paragonata al calcio dei nostri tempi, Castellini appare in uno scatto immortale. In volo plastico, alla sua sinistra, sollevato a molte spanne dal prato, mentre inchioda tra le sue enormi mani, gli spicchi di un pallone in bianco e nero, girato di testa all’ incrocio dei pali da Muraro. E’ una foto di un Inter/Napoli. Una di quelle partite vissute come disfide di Barletta. E quella è una parata che fa il paio con quella di Gordon Banks. La famosa parata del secolo, a Messico 70. La parata impossibile. Quella con la quale il portiere della nazionale inglese, non si sa come, leva via la palla letteralmente dalla porta. Su Pelè. Da vedere e rivedere, e stropicciarsi gli occhi. Fatelo. Oppure rifatelo. Castellini a Napoli fu un caso del destino e della malinconia che spesso accompagna campioni demotivati. Senza più alcuno stimolo di vittoria. In decadenza alla corte di uno sport che non ti perdona l’età. Vinto il titolo con il Torino, quello del miracolo di Radice, iniziò nel capoluogo piemontese un lento declino. Il Napoli scommise su di lui. E vinse. Approdò all’ombra del Vesuvio a 33 anni suonati. Un’età matura per un portiere. Sei vecchio, gli dicevano. Ma a Napoli Luciano ritrovò l’antica, gagliarda giovinezza. Ritrovò lo slancio. Il suo manto da giaguaro tornò, immacolato. Entrò nel cuore dei tifosi direttamente dalla porta principale. Come un uragano. Come egli era su quel prato verde quando difendeva i pali. Accese la fantasia del tifo, nello stadio nel quale si era esibito il suo grande amico e mentore, Dino Zoff. Con quel suo profilo cyranesco che si stagliava nei pomeriggi delle domeniche come un approdo di magia. Il naso imponente su un volto che ispirava simpatia. Come Cyrano disegnava rime meravigliose in volo. Aveva un modo di interpretare la porta che si rifaceva ad antichi predecessori. Istrionico. Guascone. Era un Leonida insuperabile. Uno spartano dal coraggio inarrivabile. Nella sua area di rigore pareva stare sulla prua di un vascello da guerra, saldo al comando. Quando si sollevava da terra, per levare via la palla da un angolo impossibile da raggiungere, pareva un Icaro. Ed aveva posizione. In un’ epoca nella quale vivevano scuole di pensiero diverse, quella del “piazzamento”, con scarna concessione allo spettacolo, e l’altra, quella della “spettacolarizzazione” della parata, lui, il giaguaro, stava in mezzo. Perché era portiere vero. L’estremo difensore per definizione. Costruì, al San Paolo, un record di imbattibilità interna leggendario. Dal febbraio 1983 al gennaio 1984. La sua porta rimase inviolata. Fu il protagonista della disgraziata annata nella quale il Napoli di Marchesi si avvicinò al titolo quasi fino a toccarlo. Quella del disastro con il Perugia. Lui stesso fu così segnato da quel match, da restarne impressionato per lunghissimo tempo. Lo confessò molte volte. In nazionale non ebbe fortuna. Chiuso dal suo amico Dino. Zoff e Castellini. Due di uno. Dentro un tempo indimenticabile. Quando il calcio era narrazione. Suggestione. Leggenda. Luciano Castellini ha vissuto una vita in volo. Ed è rimasto lì, sospeso. Dentro i nostri pensieri di innamorati. Un’ immagine a mano aperta contro il disco del sole. Immobile nel cielo.

Factory della Comunicazione

a cura di Stefano Iaconis

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