Pecci: «Maradona non è un giocatore, Maradona è Dio»

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Eraldo Pecci racconta il suo mondo al tempo del coronavirus. Un mondo fatto di libri, vecchie amici, ricordi, cercando si stare lontano dal frigorifero…

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T’immagino come i carcerati di Alcatraz, pigiama a righe e barba lunga, la palla al piede non si vede ma c’è. «Ti sbagli. A righe ho solo la camicia blu. Sto con un maglione grigio e la braga pure lei blu. Mi vesto volentieri, mi dà un senso di normalità e poi mi piace essere ordinato anche quando sto in casa».

Esci solo per la spesa? «Ogni mattina vado anche all’edicola sotto casa. Devo tenermi informato».

Che cosa sogni di questi tempi? «Dormo male, mi sveglio spesso e non mi ricordo i sogni».

Con chi condividi la clausura? «Con Enza, la mia compagna».

Esce il meglio o il peggio di te in questa convivenza forzata? «Ho appena finito di tagliarla a pezzi e l’ho messa nel freezer».

La mangerai a cena come Jeffrey Dahmer, il cannibale di Milwaukee? «Ci devo pensare su, ma non credo».
A parte fare a pezzi la tua compagna? «Leggo, scrivo, seguo la tv. Molti telegiornali, Mi guardo le puntate di “Law & Order”. Mi piacciono quelli che sbattono in galera i cattivi».

La clausura ha fomentato qualche tuo vizio particolare? «Spero solo, quando uscirò, di non pesare un quintale e mezzo. Mi aiuto con la cyclette. Il problema è il frigo vicino. Allunghi una zampa e sei fatto. Una volta la noce, poi l’arancio, il boccone di mozzarella».

Cosa scrivi? «Delle cose allegre, visto il momento brutto. Episodi successi nel calcio».

Non ci sarà più Gianni Mura a farti le prefazioni. «Quando parlavo in giro del mio libro sul Toro, il refrain era: “Ragazzi, leggete le prime cinque pagine, quelle di Mura, il resto buttatelo via».

Se n’è andato così, all’improvviso. «L’avevo sentito due giorni prima, mi aveva rassicurato che stava bene. Sapevo che era a Senigallia, di questo cuore che gli dava problemi. Avevo anche tranquillizzato Gigi Garanzini che era preoccupato. E, invece, aveva ragione lui».

Il tuo Gianni Mura. «Un uomo di una generosità unica. Come tasca e come animo. Un vero grande. I veri grandi ti danno senza che tu hai bisogno di chiedere».

Come vi siete conosciuti? «Ci ha fatto conoscere Terraneo, il portiere poeta, di cui Gianni era amico. Io l’ho sempre considerato un punto di riferimento. Un esempio di come deve essere una persona, al di là del talento che ti può dare la natura. C’era un feeling importante tra noi».

Cosa aveva riconosciuto in te? «Non lo so, onestamente. Ho giocato con tantissimi ragazzi. Dal più grande al più umile, da Maradona a Salvadori, ma ho sempre cercato la persona prima del professionista. Mura era il Maradona del giornalismo sportivo, senza darlo a vedere e senza farlo pesare».

Cosa stai imparando di te e in generale del mondo in questa emergenza? «Mi conoscevo bene già prima. A me non mi posso fregare… Spero di non essere un uccello del malaugurio ma temo che questa solidarietà, questo essere tutti più buoni sia un’illusione. Un mese dopo la fine dell’incubo, ognuno tornerà a correre per il suo vantaggio».

Cosa ti lega alla donna che condivide con te l’incubo? «Ci siamo conosciuti tanto tempo fa, ci siamo persi e poi ritrovati. Ci lega non più la passione giovanile ma un affetto profondo. Quasi vent’anni insieme e mi fermo qui. Non sono Ovidio a parlare d’amore».

Sigillata nel freezer, lei non ti può contestare. «Non si sa mai. Le donne hanno una marcia in più. Vedi che, anche con il virus, all’ottanta per cento muoiono gli uomini. Quando Enza mi chiede di andare a fare la spesa penso faccia parte del piano”.

Da giovane ti chiamavano il “trapano dell’Adriatico”. «La raccontavo io questa cosa, ma non ci credeva nessuno».

C’era un fondo di verità? «In Romagna allora c’era il mito del conquistatore e delle straniere. Quando si faceva la stagione in riviera, lavorando nei ristoranti e nei bar, ci scappava sempre qualcosa. Ma sui numeri che si sbandieravano c’era sempre da fare una tara».

Hai raccontato nel secondo libro della tua iniziazione sessuale. «Avevo quattrodici anni e fu in macchina con una signora austriaca. Sentii dopo pochi secondi un grande calore ed era già tutto finito. Con la mia prima fidanzatina non andò molto meglio: lei era vergine e consumai tutta la busta dei preservativi senza riuscire. Gli inizi sono duri per tutti».

Quando hai imparato a dire ti voglio bene? «Mai. Con le persone più vicine, figli compresi, faccio ancora fatica. Preferisco i gesti alle parole. Non so come mai. Mi viene più facile con gli amici».

A chi l’hai detto l’ultima volta? «Si dice tra di noi vecchi babbioni. L’ultima volta l’ho detto a Italo Cucci. E a Carlo Romeo, il direttore della tivù di San Marino».

Ti voglio bene” è diventata una frase mondana che non significa più niente. «Non per me. Io non lo dico a tutti. Sono cose che senti nella pancia. Il Signore ci ha dato delle antenne speciali. Sono molto rigido in questo, non riesco a fare complimenti gratis, neanche per compiacere un amico».

Di Eraldo ci si può fidare. Non parla a caso. «Ho avuto due genitori eccezionali, due contadini con una sensibilità speciale, babbo Gino e mamma Leda. Babbo lavorava tutto il giorno, la mamma accudiva i figli e la casa. C’erano pochi soldi, ma un’onestà maniacale».

Il tuo senso dell’etica ha mai vacillato? «Tante volte, ma grazie alla lezione dei miei non ho fatto mai fatica a scegliere la cosa giusta. Non avendo studiato molto, ho però sempre saputo che la parola data è sacra».

Un esempio? «Non mi piace vanagloriare. Posso dirti che un dirigente mi offrì una volta un mucchio di soldi, ma io rimasi dov’ero. Nomi? Te lo dico solo se non li scrivi. Chinaglia voleva portarmi alla Lazio quando stavo alla Fiorentina».

Non credo che resisterò alla tentazione di scriverlo… Quando hai capito che fare il calciatore sarebbe stato il tuo mestiere? «L’ho sempre avuto dentro. Era il mio istinto, giocare a palla. La scuola d’inverno, il lavoro d’estate, gli amici, il pallone. Mi sono sempre sentito meglio al campo che non a scuola. Ero bravino e, a quindici anni, il calcio mi ha scelto».

Non ti avesse scelto? «Sarei stato uno sbandato. O forse no. Magari avrei messo su un’aziendina mia o avrei continuato da cameriere o barista, come ho fatto dai dieci ai sedici anni».

Avevi talento ai tavoli? «Ci sapevo fare con la gente. Mi piaceva. La sera poi, con le mance guadagnate, si andava con gli amici a farci un antipasto di pesce. Un paio di braghe nere, la camicia bianca e via. Era tutto rosa, allora. Eravamo tutti ottimisti».

Lo sei ancora? «Di base lo sono, ma mi scontro spesso con realtà che fatico ad accettare».
Il Torino dello scudetto resta il capitolo mitologico della tua storia di calciatore, ma anche l’ultimo Bologna… «Una soddisfazione immensa. I ragazzi vedevano in me la loro chioccia, come Bulgarelli fu per me. Sono stati loro ad aiutare me a invecchiare bene. Marocchi, Luppi, De Marchi, Stringara, Marronaro. Maifredi in panchina. Vincemmo alla grande la “B”.»

Una meteora, Maifredi? «Arrivò con grande entusiasmo al Bologna, credeva nelle sue idee e sapeva trasmetterle ai giovani. Non era un cattivo allenatore, ma arrivò troppo presto alla Scala del calcio. Si bruciò alla Juve e non riuscì più a ripartire».

Roberto Mancini?  «Era un bambino quando arrivò al Bologna. Quando m’incrociava mi guardava come io da ragazzino guardavo Bulgarelli. Mago Bicocchi, mitico dirigente del settore giovanile, mi aveva fatto due palle così con Bulgarelli e lo stesso aveva fatto con Mancini parlando di me».

Eraldo Pecci, cuore granata. Hai rischiato di diventare juventino. «A quindici anni feci un provino con la Juve. Andò talmente bene che volevano prendermi a tutti i costi. I miei dirigenti fecero una richiesta esagerata e finì lì. Meglio così, ma ho rischiato grosso».

Ai tuoi tempi Toro e Juve erano le grandi rivali per lo scudetto. «Una volta in Nazionale ci ritrovammo in diciotto, otto del Toro, otto della Juve, più Facchetti e Antognoni».

Sei stato mai amico di calciatori juventini? «Sono amico di molti. Lo sono tutt’ora di Dino Zoff. Con lui e Gaetano Scirea giocavamo a scopone la sera col nostro comune macellaio. Avevo buoni rapporti anche con Tardelli e Cabrini. Ma poi in campo, non si guardava in faccia nessuno».

Il tuo Scirea. «Un’altra bella persona. Parlava poco, ma andava a segno. Un libero che non ti dava mai un calcio, lo trovavi a ispirare gioco in tutte le zone del campo».

Nella tua nazionale ideale, ci metti Scirea o Baresi? «Ci metto Scirea, pur riconoscendo a Baresi doti straordinarie. Gaetano era più completo. Per affinità umane, non poteva che essergli grande amico Dino Zoff».

Il tuo Dino Zoff. «Dino sembra un ventriloquo, in realtà è un grande battutista. Un personaggio tutto da scoprire. Gente solida, lui e Scirea, di cui ti puoi fidare, alla quale sono molto affezionato».

Nati juventini? «C’erano quelli come Tardelli, Cabrini o Marocchino che potevano giocare in qualunque club e poi ci sono gli stereotipi per i quali non stravedevo. Diciamo che Bettega e Furino interpretavano al meglio lo stile Juve».

Definisci la chimica del tuo grande Toro. «Un gruppo di buoni giocatori in cui ognuno, nella sua diversità, dava il meglio di sé. Talenti come Claudio Sala e Ciccio Graziani. Leader di spogliatoio come Salvadori. C’era Pulici che in area non aveva rivali. Sentiva l’odore del sangue. Un killer naturale, più di Gigi Riva, Paolo Rossi, Pippo Inzaghi e chiunque altro».

A proposito di leader, di Pecci che diciamo? «Da me non sentirai mai dire che ero un leader. Ho aiutato a fare da collante in un gruppo di campioni un po’ sfiduciati per via di campionati rubati come quello del ’72. Fu fondamentale Gigi Radice a spazzare via quel vittimismo. “Basta, noi siamo noi, si va a giocare senza tante pugnette!”».

Il più grande talento con cui hai giocato? «Vincenzo D’Amico. Lo vedevi a diciassette anni, un talento puro, destro e sinistro, palla a quaranta metri sul piede, saltava l’uomo con facilità. Hai presente il miglior Michael Laudrup? Vincenzo era anche più leggero».

Hai giocato con Maradona… «Maradona non è un giocatore, Maradona è Dio».

D’Amico è l’esempio del talento che si accontenta di sé? «Erano dinamiche di vita diverse, c’erano più distrazioni. Oggi sono tutti robot al guinzaglio del procuratore. Non giudico sia chiaro, ma è così. C’era la vita allora, non solo il pallone. Pensa a uno come Garrincha. Storie irripetibili».

Il giocatore di oggi più appaga di più il tuo senso estetico? «Lionel Messi. Lui ha avuto il dono. Devi fare i complimenti a Cristiano Ronaldo che è riuscito a mettere in piedi un dualismo con uno baciato dal Signore come Messi».

Avresti voluto più trofei nella tua storia di calciatore? «Non sono le vittorie, ma è il racconto che resta nella storia del calcio. Di Maradona non sai quello che ha vinto o quanto guadagnava, ma le sue giocate. Sono quelle che restano».

A proposito del “vincere, l’unica cosa che conta”, lo stile Juve. «Io sono poco colto, ma di Camus ho letto molto cose, inclusa “La peste”, oggi di grande attualità. Lui scrisse: “Ho conosciuto molte persone, ho fatto molte cose, ma tutto quello che so del comportamento degli uomini lo devo al fatto che ho giocato al calcio”. Sono andato anche alla sua tomba a portargli un fiore».

Il giocatore più folle? «Forse Bobo Vieri padre. Due piedi eccezionali e un fisico molto provato per via che non osservava le regole del calciatore. Mi era simpaticissimo nonostante, al Bologna, fossimo concorrenti per una maglia. Era lui il vero Bobo».

Non male in quanto a follia anche il figlio. «Mi ricordo questo bambino col collo già taurino che voleva giocare. “Sta bono!”, gli fece il padre tirandogli un colpino. Il bambino Bobo lo guardò feroce e gli grugnì in faccia come un toro. Avrà avuto un anno e mezzo. Bobo Vieri padre era uno di quei giocatori per cui pagavi il biglietto. A San Siro, ai miei tempi, la metà dei tifosi faceva l’abbonamento per Rivera e Corso».

Il tuo Bearzot? «Un’altra persona di grande decenza, colto, innamorato di questo sport. L’ho amato e ne sono stato riamato. L’aver vinto al mondiale è stata una giustizia divina per tutte le contestazioni subite. Quel gruppo aveva le sue stimmate».

Memorabili le tue battute da commentatore televisivo, tra Groucho Marx e Woody Allen. Il tuo compagno ideale? «Bruno Pizzul, il migliore di tutti. Lui è nel solco dei Bearzot e dei Mura. Un gigante».

Cosa vai a cercare quando parti a fare il giro dell’Irlanda o quando, a sessant’anni, vai da solo con lo scooter a Capo Nord? «L’esigenza è di scappare via da se stessi, ma da se stessi non si scappa. Ho notato che quando vado al Nord mi sento bene, mi dà la quiete interiore. Mi sento straniero e felice».

La vita è come un ring. Si danno, si prendono. L’euforia e l’odore del tappeto. «Vale anche per me. Momenti di meno gioia preferisco chiamarli, piuttosto che depressione. Quando mi capitano? Mi faccio uno scopone scientifico con i miei vecchietti». 

Il campionato deve chiudere bottega e ripartire da zero quando sarà? «Ci sono delle priorità, la vita su tutto. Valgono anche per il calcio. Dopo di che si andranno a contare i danni. Se sono intelligenti, si taglieranno un dito a testa, senza lasciare che ci sia chi perda la mano intera. Alla fine, come sempre, saranno i più forti a dettare le regole».

Bella chiacchierata, alla faccia del virus… «Una sola cosa, se riesci: non mi piace che mi fai uscire come quello che dice di sé: quanto sono bravo…».

Fonte: CdS

 

 

 

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