Magoni: “Venite a Bergamo e capirete perchè non si può parlare di calcio”

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Oscar Magoni, 4 anni al Napoli a cavallo del Duemila, 127 presenze e 6 gol, una promozione ma anche una retrocessione, vive a due passi dallo stadio dell’Atalanta. Chiuso in casa, blindato. Mentre l’orrore scorre a due passi da lui, sperando che non bussi alla sua porta.

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È molto provato. «Impossibile non esserlo. Le mie figlie stanno qui ma mia madre è a Selvino: ha 78 anni e non passa un secondo che non pensi a lei e che non la chiami. Il calcio è lontano, non riesco neppure a pensare al passato e al futuro. Qui, mi creda, si pensa solo a sopravvivere. E a far sopravvivere chi ti sta vicino, anche quelli che non conosci».
È un’area di emergenza estrema? «Vedo i provvedimenti e penso che si sia finalmente capito che cosa stiamo vivendo. È un incubo, una guerra dove il nemico non hai la minima idea di dove si possa nascondere».
Lei è stato sempre un leader, al Napoli, all’Atalanta. Se l’Italia fosse uno spogliatoio cosa direbbe? «Tutti noi dobbiamo rispettare il ruolo e i compiti che ci sono stati assegnati dall’allenatore, nessuno deve fare cose differenti, nessuno deve pensare a cosa fa un altro: bisogna concentrarsi solo su se stessi, sul proprio senso di responsabilità. Perché non si può essere veicoli di morte, non si può portare la malattia ai più deboli».
Cosa le fa più rabbia? «La troppa attesa prima di fare quello che bisognava fare. Troppe esitazioni, troppe decisioni rinviate di ore, giorni che avrebbero potuto contenere di più il contagio».
È stata Atalanta-Valencia, a suo avviso, la bomba ecologica? «Non so dirlo, si sospetta che quel giorno in migliaia abbiano condiviso il viaggio a Milano e quindi si possano essere trasmessi il virus che a loro volta hanno ceduto a padri, madri, nonni. Difficile saperlo con certezza, ma ora non è neppure il momento di capirlo».
Perché? «Apri le chat e leggi che qualcuno racconta di un conoscente, di un amico, del papà o della mamma di un amico che non ce l’hanno fatta. Che hanno preso la malattia e sono morti. Non si scappa, non c’è famiglia che qui non sia sfiorata da questa pandemia. Qui va salvata la vita».
Tutta l’Italia è in quarantena, anche qui al Sud. Ma lì come si vive l’isolamento? «Altrove magari puoi anche riuscire a non pensarci. Perché decidi che per un paio di ore non vedi un telegiornale o non ti connetti al web. Ma qui non scappi: anche se resti a giocare a carte con le figlie, senti una, due e tre ambulanze che nel giro di pochi minuti sfrecciano veloci e ti riportano subito nella realtà. E la realtà è un incubo. La percezione giusta di quello che è il Coronavirus si ha solo se si viene qui a Bergamo».
Il calcio può riprendere a maggio secondo lei? «Ma come si fa? Qui portano le salme delle persone fuori dalla Lombardia per le cremazioni senza consentire un ultimo saluto ai figli, ai nipoti, al proprio coniuge. Non puoi fare un funerale, non puoi neppure piangere sul defunto. È pazzesco, è una sofferenza nella sofferenza. Qui nessuno ha tempo e desiderio di pensare al calcio».
Il sogno di un ritorno delle partite il 3 maggio è un sogno di normalità, non trova? «Lo è. Ma ha detto bene: è un sogno. Quel che conta adesso è evitare atteggiamenti che possano provocare intasamenti negli ospedali. E ricordarsi che nessuno è immune, questa è una malattia democratica. Io so di 45enni e 50enni che sono finiti in rianimazione, quindi non pensiamo che colpisca solo i più deboli. Mettiamo da parte l’egoismo».
Il mondo del pallone rischia di fare crac. «Non è solo il calcio. Penso alle tante attività che qui hanno chiuso, alle partite Iva che con 600 euro non pagano neppure le spese. Il morale è a terra e ci vorrà del tempo prima di tornare a gioire per il calcio. Anche perché quello che stiamo vedendo accadere davanti ai nostri occhi lascerà dei segni per sempre».

Fonte: Il Mattino

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