Guardo il fermo immagine. Cr7, al secolo Cristiano Ronaldo. Fermo in aria, i piedi a due spanne dal terreno, la testa inclinata in avanti, nel gesto di colpire la palla. Armonico. Perfetto. Una statua senza basamento. Niente male, penso. Mentre addento un biscotto. E lo riguardo, ascoltando l’urlio della telecronaca che ne magnifica il gesto. “Nessuno come lui. Sfida la forza di gravità. Incredibile”. Sorrido. Ed il pensiero apre una porta. In fondo al corridoio delle mille memorie calcistiche. Ne viene fuori un uomo in maglia azzurra. Altezza media, le gambe muscolose, i capelli riccioluti, il sorriso dolce, ma scaltro, un accenno di baffi, l’andatura dinoccolata, ciondolante. I piedi larghi, come uno Charlot del prato verde. Lo riconosco subito. Non occorre che un momento appena. Lo ha rievocato il portoghese, con il suo salto. Beppe Savoldi. Mister due miliardi. Il centravanti di un Napoli indimenticabile. Lui, con Jeppson, Vinicio, Sergio Clerici, ed Antonio Careca. I “nove” impossibili da dimenticare. Le loro orme custodite dal prato del San Paolo. Beppe Savoldi, Beppe gol. Guardo il fermo immagine. Misuro il salto. Il gesto atletico. Un altro morso al biscotto. Beppe saltava di più. Da fermo. Lui non aveva bisogno di rincorsa. Diceva che il fatto di aver giocato al basket lo aveva plasmato nella capacità di “zompare”. Lo diceva con quel suo modo di parlare quasi timido, che lo faceva, sembrare sempre pronto alla fuga, dinanzi alla telecamera. Lui, bergamasco catapultato sotto il Vesuvio. In un luogo così diverso da lui, che lo aveva amato da subito. Beppe gol era schivo. Era un uomo che quella timidezza la lasciava fuori quando infilava gli scarpini. E la maglietta con il 9. Per gettarsi nella mischia delle aree di rigore, in un tempo nel quale la sua statura da lillipuziano era un dazio da pagare alla ferocia dei difensori avvezzi a marcature senza l’ausilio del Var. In quelle mischie, tonnare selvagge dove spesso ogni cosa era concessa, lui era il signore indiscusso. Quando la palla saliva, lui saliva con lei. Non importava se la parabola fosse arcuata, tesa, forte, appena lenta. Lui trovava sempre il modo. Per impattarla. Colpirla. Girarla verso la rete avversaria. Con un tempo perfetto, quasi avesse radar ed antenne capaci di percepire l’esatto momento nel quale andarle incontro. Mai un istante prima, mai un attimo dopo. Lui arrivava dove il suo avversario non poteva. In un gesto tecnico la cui perfezione era pari soltanto all’eleganza con la quale lo compiva. Metteva la palla dove voleva. Con una levità, una grazia, una naturalezza che rendevano il suo colpo di testa arte pura. Saltava verso le stelle, Savoldi. Afferrava comete per la coda. Arruffava i capelli dei sogni, con il suo sorriso dolce. I sogni di una tifoseria che aspettava da sempre quel triangolo tricolore. Sfiorato, accarezzato, mai tenuto tra le mani. Con lui, Savoldi, quel sogno parve possibile da realizzare. Settantacinquemila abbonati in una sola campagna. Un record mai più sgretolato. Nemmeno quando arrivò Lui. El diez. Faceva marameo a marcatori che gli davano venti centimetri in altezza, Beppe gol. Dentro la propulsione di quelle sue gambe che apparivano tozze, piccole, ma che possedevano la potenza di un ariete. La potenza che veniva da una conoscenza del gioco immensa. Era anche un grande rigorista, Savoldi. Passettini brevi, da uccellino, e poi il piatto destro. A disegnare una traiettoria semplice. Impossibile da intercettare. Quasi sempre palla di qui, portiere di là. Facile. Senza l’ orgasmo del dubbio. Beppe Savoldi era così. Come il calcio che giocava. Sognante. Caracollando sul prato, senza luci della ribalta. Uno Charlot malinconico che scatenava le folle. Un salto verso le stelle. E ritorno.
a cura di Stefano Iaconis