Violenze negli stadi. Il Capo della Polizia Gabrielli: “I club ci devono aiutare”
La sicurezza negli stadi condivisa tra forze dell’ordine e società sportive. Un’idea che altrove è realtà. Un progetto per provarci anche in Italia, partendo dalla Lega Pro. E un’occasione per incontrare il capo della polizia, Franco Gabrielli, in visita al Corriere dello Sport-Stadio. E parlare con lui di calcio, e non solo. Iniziando da quella Juve che gli sta a cuore, alla vigilia di uno scudetto dolce-amaro. Lui vorrebbe glissare, e ci prova anche: «Per fortuna – dice – vivo queste cose non una certa levità».
Ma davvero?
«Va bene, ammetto che anche per me questa Champions è diventata un’ossessione. Ero a Manchester nel 2003. Poi a Cardiff nel 2017. E naturalmente a Torino».
E che idea s‘è fatto? È un incidente di percorso o la fine di un ciclo?
«Non lo so. Ma ho visto la distanza abissale tra il calcio italiano e la grande scuola olandese. Ho capito che non siamo né l’Ajax dei giovani gioielli, né una di quelle corazzate che comprano chi vogliono».
E Ronaldo dove lo mette?
«Ronaldo è un grande campione. Ma anche la prova che noi possiamo prendere i top player solo in una fase discendente della loro avventura sportiva».
Vuol dire che abbiamo imitato male il calcio dei magnati e ignorato quello dei talenti?
«Ma ha visto come l’Ajax ha riscritto la tattica globale di Rinus Michels? Cruijff tagliava le difese con lanci di cinquanta metri, adesso giocano a torello in un fazzoletto. E confondono, e ubriacano, di prima, di testa e di tacco. La palla non la vedi neanche. Sa cosa mi ha colpito di più?»
Che cosa?
«Che tutto accadeva in area di rigore, e a nessuno di quei funamboli veniva in mente di lasciarsi cadere. Quel giocare in spazi strettissimi, cercando l’intesa e puntando solo alla porta, era anche una lezione di sportività».
Dobbiamo ripartire dall’Ajax?
«No, il nostro target non è quello. Anzi trovo provinciale immaginare di esportare modelli che si spiegano nel contesto in cui nascono. Ne parlavo poco fa con Francesco Ghirelli».
E lui che dice?
«Che l’Ajax è il centro di una circonferenza. Nel raggio di trenta chilometri c’è la casa, lo stadio, l’ambulatorio, l’Università. Il tutto fa un modello in cui la qualità intellettuale e la formazione culturale sono una componente tecnica, perché il calciatore si allena meglio, conosce meglio il suo corpo, capisce meglio la tattica. E ha una forza mentale diversa. Non possiamo imitarli, ma possiamo fare nostre alcune buone pratiche».
Per esempio impedire che i calciatori si sfidino esponendo alle curve la divisa degli avversari?
«Non è stato un bel vedere, quello di Kessie e Bakayoko. Ma anche le reazioni al loro gesto mi sono parse abnormi. Perché poi, restano due ragazzi. La loro goliardia irridente è stata, certo, una provocazione esagerata. Ma i problemi veri sono altri».
Le botte in campo a fine partita, per esempio?
«Certo. Ma non solo quelle. Non accetto che si assedi l’arbitro con atteggiamenti minacciosi, solo perché non si condivide una sua decisione. È un modo di non rispettare le regole e chi le incarna».
Un insulto all’autorità?
«Sì. È un messaggio simbolico diseducativo. A una platea non propriamente oxfordiana può fare un certo effetto. Assai più della maglia dell’avversario esposta al pubblico».
Vuol dire che bisogna distinguere la provocazione dalla violenza tout court? «Esatto».
Però converrà che anche questa tentazione di usare la divisa altrui può avere un significato ambiguo, ancorché sia un tratto di questa stagione.
«Se sta parlando di Matteo Salvini, ripeto quanto ho già detto: questa polemica nasconde un fondo di ignoranza. Qui si suppone erroneamente che il ministro dell’Interno non sia al vertice delle forze di polizia. E che quindi abbia bisogno di indossare una divisa per confondere le idee al cittadino. Ma lui è la massima autorità di pubblica sicurezza del Paese, come si fa a dubitarne?»
Ne ha parlato con il ministro?
«Certamente, e mi pare peraltro che ultimamente abbia fatto anche un uso più sobrio della divisa».
Che pensa dei messaggi che vengono dalle società? In Gran Bretagna e in Francia al primo buu i club hanno aperto un’inchiesta interna, hanno individuato i teppisti e gli hanno detto forte e chiaro: qui non si entra più. A Cagliari il presidente ha giurato e spergiurato che il razzismo non c’entra, «perché noi…».
«È questo il cuore del problema. Per questo apprezzo l’iniziativa della Lega Pro. Che assume con lo “slo” (supporter liaison officer – ndr) l’impegno a governare il rapporto tra la società e i tifosi, e con la clausola di gradimento il diritto dovere di rifiutare un biglietto o un abbonamento a persone che definirei complicate da gestire. In Francia queste misure sono diventate legge».
Ma quello degli ultrà violenti con molti dei nostri club è ancora un ricatto o un patto collusivo? O entrambi?
«Non c’è una spiegazione univoca. Certo, le condizioni del ricatto si sono affievolite. Perché ormai la stragrande maggioranza del flusso economico che regge il calcio viene dai diritti televisivi. Però c’è ancora un’alchimia ambigua, fatta di atteggiamenti non collusivi ma compiacenti, dei quali non si avverte la giusta gravità. Purtroppo nei prossimi giorni dimostreremo che certi fenomeni, se non intercettati, producono esiti poco piacevoli».
Sta dando una notizia?
«È presto per parlarne. Però intanto voglio dire che non ascrivo tutti questi fenomeni a una connotazione univoca di natura criminale. E quindi la risposta deve essere anzitutto culturale, sapendo che un risultato immediato può anche non esserci o non essere percepito. Perché i processi culturali hanno bisogno di tempo. Ma è questa la strada. Responsabilizzare e coinvolgere i club. Metterli attorno a un tavolo con i gestori dell’ordine pubblico. E far passare il principio che la sicurezza non può avere approcci antagonisti. Nel senso che si sta tutti dalla stessa parte».
Ma nell’atteggiamento dei tifosi-teppisti è cambiato qualcosa in questi anni?
«No. Abbiamo solo spostato l’area degli scontri. Prima avveniva negli stadi, poi l’abbiamo respinta fuori dai cancelli, adesso si sviluppa a distanza. Oggi la maggiore criticità sono le trasferte, ci sono sempre più tifoserie che si danno appuntamento nelle aree di servizio o in autostrada per regolare i conti».
Il bersaglio è solo quello delle tifoserie antagoniste o anche la divisa della polizia?
«L’uno e l’altro, c’è una violenza identitaria e una per così dire ideologica, ma si intrecciano nelle motivazioni. E spesso non è facile distinguerle».
Gli stadi vecchi che ruolo giocano?
«Sono l’aspetto più dolente. E l’ho toccato con mano in una parentesi non esaltante della mia esperienza professionale. Quando disposi, da prefetto di Roma, la divisione delle curve all’Olimpico e non fui compreso da tutti. Eppure, come cercai di spiegare, non c’era nulla di persecutorio in quella scelta, che rispondeva a un criterio di prevenzione: in una curva che poteva contenere non più di settemilacinquecento persone ce n’erano tredicimila. Noi siamo ancora per certi versi il Paese del cinema Statuto, dove ci si accorge che le regole esistono e vanno applicate solo all’esito di tragedie. E dove si confonde la cosiddetta safety con la security».
Si spieghi meglio.
«Lo faccio con un esempio. All’inizio del campionato passa sempre il seguente principio: lo spettacolo deve andare avanti. Invece di dire no, lo spettacolo non si fa perché tu non sei grado di tutelare l’incolumità delle persone che affluiscono allo stadio, si deroga. E lo si fa rovesciando i motivi di sicurezza pubblica. Perché si dice: qualora l’impianto non fosse ritenuto idoneo, la mancata fruibilità creerebbe turbative all’ordine pubblico. Così si finisce per riconoscere un’agibilità claudicante o inesistente. È un paradosso, ma accade».
E il cerino torna nelle mani della polizia?
«Purtroppo sì».
C’è chi dice: se avessimo le celle di sicurezza negli stadi tutto sarebbe più facile. Lo pensa anche lei?
«Assolutamente no. Questa aspettativa securitaria ignora il contesto italiano. Si dice: con le celle la Thatcher ha smontato in pochi anni la furia degli hooligans. Ma parliamo di un Paese diverso dal nostro. In Italia il problema è semmai la risposta del sistema della giustizia».
Il razzismo vive una fase di recrudescenza. Da prefetto di Roma, pochi anni fa, lei criticò la reazione di alcune borgate che non volevano accogliere nuovi immigrati, e nessuno osò contestarla. In pochi anni il clima è del tutto cambiato. Non crede che incida, su questo cambiamento, un’ambiguità del linguaggio politico e civile?
«Vedo due fenomeni: uno strisciante antisemitismo, che riaffiora anche grazie a una miope sottovalutazione, e un xenofobia che talvolta sconfina in razzismo vero e proprio. Non a caso nel mio saluto alla festa della polizia ho detto che, nei nostri percorsi di formazione, dobbiamo sensibilizzare il nostro personale sui reati di genere e sull’odio razziale. Però stiamo attenti a gridare al razzismo di fronte ai buu dagli spalti. Perché il rischio è quello di spettacolarizzare il fenomeno e amplificarlo. Sono convinto che, se derubricassimo questi gesti a fatti irrilevanti, sparirebbero presto».
Derubricarli e ignorarli? Oppure derubricarli e affrontati dai club con l’esclusione degli autori dagli spalti?
«La seconda che ha detto».
E l’arbitro che fa, se lo stadio diventa un coro di buu? C’è chi pensa che debba fermare il gioco e mandare tutti negli spogliatoi.
«L’arbitro ha una potestà totale per ciò che avviene nel rettangolo di gioco. Se c’è un pregiudizio per i calciatori, può sospendere la partita. Ma quello che accade sugli spalti compete all’ordine pubblico. Ho vissuto come dirigente della Digos di Roma la sospensione del derby del 2004, che scatenò incidenti pesanti fuori dallo stadio. Oggi sappiamo che interventi intempestivi possono produrre danni più gravi di quelli a cui vorrebbero porre rimedio. Ho ripetuto questi concetti dopo gli insulti a Koulibaly in Inter-Napoli. E c’è chi ha tentato di mettermi in contrapposizione con Ancelotti, che pure stimo profondamente come grande uomo di sport».
C’è ancora chi pensa che il Daspo sia la soluzione per tutti i mali del calcio. Qual è in concreto la sua utilità?
«Se l’incidente avviene lontano dallo stadio, il Daspo purtroppo serve a poco».
Eppure la politica pensa che aumentando Daspo, reati e pene si risolva ogni problema.
«Questo Paese rischia di morire di bulimia normativa. E soprattutto di bulimia penale. Non ci rendiamo conto che questa smania di aggiungere reati impatta con un sistema che già non riesce a gestire l’ordinario. Servono pene certe e processi rapidi. Che garantiscano il diritto alla difesa dei cittadini e la pretesa punitiva della società. Ma la dilatazione di quest’ultima può avere effetti devastanti. Offende gli onesti, che non vedono riconosciuta la loro innocenza in tempi ragionevoli. E avvantaggia i disonesti, che nel limbo, dove tutto è sospetto e nulla è prova, ci sguazzano a meraviglia».
Il ministro dell’Interno ha detto che chiude i porti perché teme che con i migranti arrivino terroristi. Qual è l’allarme reale oggi, anche rispetto alla guerra civile scoppiata in Libia?
«Quando l’Isis era uno Stato, ritenevamo improbabile che con i barconi giungessero i terroristi. Però, già con l’ex ministro Marco Minniti, e poi con l’attuale Matteo Salvini, notammo che il disfacimento della statualità dell’Isis nel teatro siro-iracheno rischiava di scatenare il ritorno in Europa di non pochi foreign fighters. La crisi libica e le effervescenze in Algeria e Tunisia possono ora aggravare il problema. Che questa valutazione venga utilizzata per dare indicazioni sulla gestione di un barcone è una scelta politica che non mi compete. Ma da tecnico devo dire che il rischio esiste».
Fonte: Cds