Troise, napoletano vincente a Bologna: “Il problema sono i genitori!”

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Emanuele Troise, un napoletano che vince il torneo di Viareggio, ma non sulla panchina del Napoli, no. Su quella del Bologna. Appena compiuti 40 anni, ha alzato la Coppa Carnevale indossando la tuta della Primavera bolognese, città dove lo aveva portato la carriera quando nella squadra azzurra, non c’era stato più posto per lui. «Orgoglioso e fiero di questo successo, conquistato con un gruppo in cui vi sono quasi tutti giocatori italiani. Anzi, uno solo è straniero». A Il Mattino parla del suo ruolo, del rapporto complicato con i genitori, delle loro aspettative e delle loro pressioni, sbagliate, sui ragazzi:

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Sembra che il vivaio italiano si stia risvegliando: da esperto, qual è la sua impressione? «Abbiamo fatto passi in avanti, però questo sviluppo tecnico dovrebbe procedere di pari passo con quello delle strutture e invece in Italia si fanno ancora pochi investimenti negli impianti sportivi, soprattutto al Sud. Io non posso che essere soddisfatto di quanto mi mette a disposizione il Bologna, proprietario di un centro attrezzatissimo, dove si può curare la qualità del lavoro. Invece, da noi…». 

Da noi, a Napoli e dintorni. «Strutture fatiscenti e obsolete, difficile lavorare con i giovani. Ne ho esperienza diretta».

Sei anni fa ha creato a Volla la Troise Academy, quasi una sfida«No, più che altro il desiderio di offrire ai giovani alcuni degli strumenti che ho avuto io a disposizione quando ho cominciato a giocare. Sono partito dal Don Bosco, poi il salto dal Vomero di Antonio Varriale alle giovanili del Napoli, dove entrai a 12 anni. La scuola calcio è seguita dai miei fratelli Alessandro e Francesco, però spesso faccio dei blitz. Per osservare il comportamento dei ragazzi e dei loro genitori».

Perché studiare i genitori? «Ho voluto fissare delle regole, una sorta di decalogo, che vale per i calciatori come per le famiglie, perché in questa fase i bambini devono giocare per divertirsi e contemporaneamente coltivare valori importanti, nello sport come nella vita. Ho riunito i genitori per spiegare che interventi dall’esterno, come un urlo dietro alla recinzione durante la partita o un giudizio affrettato al termine di un allenamento, possono condizionare i loro ragazzi. Noi siamo istruttori, la famiglia è un’altra cosa, la più importante, e non deve esercitare pressione su un giovane. Ma si fa fatica. Purtroppo non sempre si comprende che certi comportamenti sono sbagliati: è violenza psicologica».

Addirittura? «Certo. Ecco perché a volte mi presento al campo di allenamento senza annunciarmi: per osservare, per capire, per provare a correggere. C’è una differenza tra la volontà dei bambini e quella di alcuni genitori: i bambini vogliono andare in campo per giocare, alcuni genitori affidano a quei figli un compito insopportabile, quello di una svolta economica e sociale. Ma quanti hanno i mezzi per diventare calciatori veri? Neanche quando arrivano a 14-16 anni puoi comprenderlo. Sembra un processo psicologico e logico scontato, però in alcuni casi non è tale. Ma come si fa a pensare o dire, davanti a un ragazzino di 10 anni, questo è da Nazionale? In strada, ai miei tempi, era un’altra cosa».

Cioè? «Cioè? Noi giocavamo dalle due del pomeriggio alle otto di sera e non c’era nessuno che ci dicesse là, in strada, tu diventerai Maradona o Careca… Ci divertivamo e basta, non c’era nessuno a giudicarci».

Lei ce l’ha fatta a indossare la maglia del Napoli«Sì, ho visto il bello e il brutto in pochi mesi. Esordio con Novellino nel 1999, l’anno della promozione in A, e poi una serie di problemi fisici nella successiva stagione, conclusa con la retrocessione in B. Per me, un’annata di sofferenze fisiche, dallo strappo muscolare alla frattura della clavicola un minuto dopo il ritorno in campo nella partita contro il Parma. Un’amarezza enorme, anche perché ero titolare nell’Under 21 e circolava con insistenza la voce che il commissario tecnico Trapattoni stesse per convocarmi in Nazionale. Avevo poco più vent’anni, tutte quelle cose messe insieme furono un colpo duro, però ero già forte psicologicamente e ne venni fuori».

Ce n’era un’altra di voce: l’offerta di 18 miliardi di lire della Juve, dove il leader della difesa era Ciro Ferrara, un napoletano«Anni dopo il direttore sportivo Fusco mi disse che quell’affare era saltato perché il Napoli non aveva accettato un giocatore proposto dalla Juve in contropartita».

Nel Napoli era rientrato da osservatore pochi anni fa«Ho giocato e lavorato con Pecchia e, quando Fabio diventò il vice di Benitez, mi chiamò per offrirmi quell’incarico. Andavo a studiare la squadra avversaria, poi presentavo la relazione a Rafa e al suo staff. Una grande esperienza perché mi sono calato in una dimensione internazionale ed è stato istruttivo osservare il calcio dall’alto: a quel punto mi sono sentito pronto per affrontare questa professione. Attirato dalle squadre giovanili, ho anche avuto contatti con Grava, il responsabile del vivaio, e ho colto le difficoltà per offrire strutture adeguate al livello di un grande club come il Napoli e fare fiorire il grande talento che c’è nella nostra terra».

Quali sono i suoi modelli da allenatore? «È stata importante l’unica esperienza che ho fatto all’estero, in Grecia, con la maglia del Pantharakikos Komotini. Ho conosciuto Emilio Ferrera, un tecnico belga di origini spagnole, sacchiano autentico. Mi ha conquistato con la sua zona integrale. Ho avuto allenatori che hanno scritto la storia: da Zeman ho appreso il calcio verticale e la gestione dei giovani, a distanza di anni si sono rivelati preziosi gli insegnamenti di Mazzone su praticità difensiva e necessità di tenere la palla contro le grandi. A un ragazzo devi trasferire il maggior numero di concetti possibili, non basta un solo modulo o una sola idea. Ho fatto la difesa a quattro, poi sono passato a quella a tre, per esempio».

Ma il calcio dei grandi Troise lo sogna? «Mi godo questo momento. Il Bologna non vinceva il Viareggio da 52 anni, un anno fa la Primavera è retrocessa ma la società ha continuato a portare avanti il progetto. Non mi aspettavo che i tifosi si emozionassero tanto per questo risultato e noi soprattutto emozioni dobbiamo provare a regalare».

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