Quagliarella: “Mi manca una maglia! Il mio allenatore? Novellino”

Quagliarella: "Ho iniziato a giocare a calcio a cinque anni ed era all'Annunziatella"

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Quagliarella: “Mi manca una maglia! Il mio allenatore? Novellino”

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Domani sera allo stadio Olimpico di Roma, la Sampdoria di Marco Giampaolo affronterà i giallorossi per la seconda giornata di ritorno e con il dubbio Fabio Quagliarella. Il ragazzo di Castellammare è uscito dal campo toccandosi la coscia e solo oggi saprà se potrà esserci in campo. L’ex tra le altre squadre del Napoli è stato intervistato dal CdS sul suo momento con i liguri e sulla sua carriera calcistica.

Come ha cominciato Fabio Quagliarella a giocare a calcio da bambino, a Castellammare ? «Vicino casa, in un’associazione parrocchiale. Si chiamava Annunziatella».

Quanti anni aveva? «Cinque anni. Lo ricordo perché il mio vicino di casa, che aveva questa squadretta, disse a mia madre il giorno del mio compleanno: “Me lo prendo, così lo porto un po’ al campo con me”. Da lì non ho mai smesso».

La passione per il calcio era anche una passione da tifoso? Cosa c’era di calcio nella sua stanza da bambino? «Tifoso sì, perché mio papà, mio fratello seguivano il calcio tutto il giorno, tifosi della Juve Stabia e del Napoli. Mio papà aveva due abbonamenti. Nella mia stanzetta c’era il poster del Napoli. In particolare quello di Maradona, naturalmente».

Che cosa è stato Maradona per Napoli, e per un bambino come lei? «E’ stato motivo di orgoglio aver avuto a Napoli un fenomeno del genere. Era una cosa troppo bella. Mio papà lo osannava in qualsiasi momento. Ci ha aiutato ad essere più orgogliosi di essere napoletani».

Si ricorda la prima volta che è entrato in uno stadio? «Era una partita della Juve Stabia, sicuramente. La domenica successiva mio padre mi portò al San Paolo».

E che emozione fu? «Fu bellissima. Guardavo la partita ma soprattutto guardavo tutto il contorno: i tifosi, i colori, il prato, le maglie. Fissavo le facce, le espressioni che la gente faceva ad ogni azione. Non posso dimenticarle. Ai miei tempi c’era solo “Novantesimo minuto” e bisognava aspettare le sei del pomeriggio per vedere i gol, una cosa inevitabilmente fredda. Invece allo stadio era tutto un susseguirsi di emozioni».

 E ricorda la prima volta che entrò in campo da giocatore in serie A? «Certo: avevo fatto l’esordio a diciassette anni con la maglia del Toro, in Torino-Piacenza. Nel secondo tempo mister Mondonico mi buttò nella mischia, da esterno sinistro, quasi terzino. Fu un’emozione incredibile perché non me l’aspettavo. Il giorno prima stavo con la Primavera e la sera mi chiamarono e mi dissero di andare in ritiro con la prima squadra. Poi mi aggiunsero che sarei stato in panchina con le riserve. Poi addirittura scesi in campo. Ero un ragazzo. Non capii più niente. Un diluvio di sorprese».

I suoi genitori che facevano di lavoro? «Mia mamma casalinga. Mio padre ha fatto tanti lavori diversi. Lavorava in cartiera, poi la cartiera ha chiuso e mio padre si è arrangiato. Gli dico sempre che lui sa fare praticamente tutto, tutto quello che si può fare: aggiustare le macchine, fare l’idraulico, sistemare un impianto elettrico. Ha le mani d’oro. Se avessi preso l’uno per cento di mio padre starei a posto. Invece non so fare niente di tutto ciò».

Si ricorda una cosa bella che suo padre o sua madre le abbiano detto della sua carriera? Un momento in cui li ha sentiti vicini? «La cosa bella della mia famiglia è che non mi hanno mai messo pressione, anche quando, a quindici anni, sono andato a Torino. La cosa che ricordo sempre è che loro mi dicevano: “Se tu non ci vuoi più stare, se non hai più voglia, se vuoi tornare a Napoli, non c’è problema. Noi ti veniamo a prendere, non ti sentire in obbligo”. Mi hanno sempre detto “il sacrificio lo fai tu. Sì, sei lontano da noi, ma il sacrificio vero e proprio lo fai tu, quindi tu devi essere convinto”».

Lei a quanti anni è andato via di casa? «Tredici».

E come è stato? «All’inizio un grande entusiasmo, un entusiasmo pazzesco, non vedevo l’ora di partire. Poi dopo due, tre mesi cominciò ad essere dura. Dura perché poi ti mancano i fratelli, ti manca la famiglia, ti manca la quotidianità della tua vita con le persone che ami. Svegliarsi con la mamma che ti prepara la colazione… Invece lì, da un giorno all’altro, mi sono ritrovato uomo. Uomo rispetto all’età che avevo. E’ stato traumatico. Delle volte la notte li chiamavo piangendo, perché la nostalgia era troppa. Quelle frasi me le ripetevano sempre “Se non te la senti, noi ti veniamo a prendere”. Quando mi sentivo dire così dentro di me mi dicevo “no, non posso mollare” e continuavo ad andare avanti».

Non ha mai avuto voglia di lasciare? «No, mai. Ho passato momenti durissimi quando ero piccolo, però ho sempre pensato di non voler avere rimorsi in futuro. Pensavo: voglio arrivare, non so dove arriverò, ma ci voglio credere fino in fondo. Vedremo che tipo di carriera farò, però non voglio avere rimpianti».

Giovanni Galli mi ha parlato molto di lei e in termini veramente molto affettuosi e riconoscenti. Cosa significa per lei quella maglia 27 e come ricorda Niccolò Galli? «La maglia 27 è il mio modo di ricordare sempre con dolcezza un ragazzo d’oro e una famiglia semplice, perbene, una famiglia per la quale ho tanto affetto. Io sono orgoglioso di essere amico della famiglia Galli. E orgoglioso di avere sempre indossato quel numero, per Niccolò».

Com’era Niccolò? «Niccolò era un ragazzo semplice, il gigante buono. Fisicamente lui era un colosso. Aveva un grande futuro davanti a sé. Poi sappiamo come purtroppo è andata. Era un ragazzo umile, lavoratore, aveva giocato già in serie A. Aveva forza, tecnica, talento».

Lei ha cambiato moltissime squadre, tutte di prestigio. Ha sofferto del fatto di non essere, come Totti o Zanetti, radicato in una squadra? «Sì, le circostanze del mercato hanno voluto diversamente. Però, sarebbe stato bello essere la bandiera di una squadra. Il destino, diciamo così, mi ha fatto cambiare più squadre. Però, la cosa bella è che ho cercato sempre di lasciare un buon ricordo del Quagliarella giocatore, ma soprattutto del Quagliarella uomo. Ma ora mi piacerebbe legare il mio nome alla Samp, dove mi trovo benissimo».

Chi è stato l’allenatore più importante della sua vita? «Dirne uno in particolare è dura. Novellino è quello che mi ha voluto fortemente alla Sampdoria. Ma per me Giampaolo è il primo. Quando l’ho incontrato venivo dalla serie B. Avevo vinto il campionato con il Toro e lui era in serie A con l’Ascoli. Ci dovevamo salvare, lui puntò tantissimo su di me e mi fece fare tantissime partite da titolare. E da lì ho preso consapevolezza di me».

Lei ha fatto dei gol meravigliosi. Alcuni andrebbero incorniciati. Qual è il più bello che ha fatto? «Come difficoltà quello da centrocampo contro il Chievo, oppure la rovesciata a Reggio Calabria contro la Reggina. Mi piace quello al Mondiale in cui ho fatto il pallonetto in un momento difficile e importante per la squadra. Il pallonetto al Mondiale al mio esordio: è stato bello. Quello che mi è andato storto è la traversa con la maglia del Napoli all’esordio. Bello fu anche il gol in Champions League con la maglia della Juve contro il Chelsea. Difficile trovarne solo uno, per me».

Il difensore più rognoso che ha incontrato chi è stato? «All’epoca c’erano Maldini, Costacurta, Cannavaro, Thuram, Samuel, Materazzi… E’ dura sceglierne uno. Se non affrontavo questa gente era quasi una domenica di riposo per me».

E ce n’era uno cattivo? «Quello che mi intimoriva di più era Materazzi. Poi ho avuto la fortuna di giocarci in Nazionale. Lui era quello che, marcando un attaccante, faceva sentire di più la presenza. Contro di me non ha mai avuto atteggiamenti provocatori, voglio dirlo».

C’è un nuovo Quagliarella tra i giovani del calcio italiano? Lei lo vede? «Non lo so. Vedo poco istinto negli attaccanti, pochi che se ne sbattono di sbagliare. Io sono il tipo che se deve fare una rovesciata, un tiro al volo non ci pensa due volte. Se sbaglio, amen. Anche per questo ho fatto dei gol belli. Vedo tanti che invece sono sempre preoccupati da quello che possono dire gli altri. Non lo so, faccio fatica. Poi i giovani, ora, se fanno due partite buone vengono osannati e se ne sbagliano due vengono distrutti. Perciò per loro è un problema».

Non le sembra che nel calcio italiano si insegni un po’ troppa tattica e un po’ troppa fisicità e un po’ poca tecnica? «Sì, in Italia siamo famosi per la tattica, però io credo che si dovrebbe lasciare la libertà, soprattutto ad un attaccante che ha estro, di fare delle giocate. E’ sbagliato cercare di incastrarlo nella tattica, nei movimenti. Così si perde il piacere del calcio. Il piacere del gioco è lasciare libero il giocatore. Però nel calcio di oggi si guarda troppo ai risultati, è un calcio un po’ diverso da quello in cui sono cresciuto».

 

Nella Sampdoria, come in quasi tutte le squadre di serie A, i giocatori italiani si contano sulle dita di una mano. «E’ una cosa triste, devo essere sincero. Così si penalizza la Nazionale. Dicono i giovani, i giovani… Ma i giovani li dobbiamo far giocare, bisogna dargli fiducia. Certo, tante volte ti fanno incazzare, però è normale che sbaglino. Secondo me tanti giovani devono andare a fare la gavetta. Una volta, quando c’era il settore giovanile, ti mandavano a fare le ossa, in campionati tosti. Dovevi andare a far vedere che avevi carattere. Ora tanti escono dalla Primavera e vanno titolari in B o vanno a fare le riserve nel campionato in serie A. Secondo me non c’è una crescita, così. Io sono contentissimo di aver fatto la C2, poi la C1, la B e solo poi di essere arrivato in A. Si aveva a che fare con quelli più grandi di categoria che ti guardavano male male. Ti portavano a pensare: non so mica se ritorno a casa stasera. Secondo me quella è una scuola importante. Poi, la scuola dei campetti. I ragazzi non giocano più in mezzo alla strada. Adesso hanno tutti l’iPad in mano, l’iPhone, si sentono fichi, si sentono campioni. Il calcio è fatica, gavetta, polvere. Tutto quello che serve perché diventi gioia».

I suoi compagni di squadra più giovani quanto stanno nello spogliatoio con il telefonino e l’iPad? «Ormai, tutti. Giovani e vecchi, non solo giovani. Ormai si parla poco in tutti gli spogliatoi. Sono tutti ragazzi bravi, io parlo della Sampdoria, tutti professionisti seri. E’ normale adesso che quando finisci gli allenamenti o la partita tutti si stia con il telefono in mano. Si perde quell’attimo di aggregazione, la bellezza delle parole. Però, così fan tutti e, quindi, ormai è così».

Che cosa non ha funzionato nel rapporto tra lei e la Nazionale? Secondo me lei poteva giocare molto di più in azzurro… «Non lo so. Io credo in quello che ho potuto dare. Ho fatto quasi dieci anni di Nazionale però le partite fatte sono state poche. Quando sono andato in azzurro, all’inizio, c’erano i campioni del mondo, giocatori straordinari. Negli anni a seguire, non lo so. Gli allenatori fanno le loro scelte, non sto a criticare. A me ovviamente dispiaceva quando non c’ero. Ho sempre cercato di fare i miei campionati, le mie partite, i miei gol. Alla fine una mano la potevo dare anche io, in Nazionale. Mi potevano dare più fiducia. Questo mi dispiace».

Se lei dovesse portare su un’isola deserta una maglietta di una partita, quale sceglierebbe? «Sceglierei la maglia della Nazionale. Quella del Mondiale. Racchiude tutto: il mio sogno, la mia nazione, l’Italia. Quella maglia la porterei con me…»

Se lei dovesse dire ad un bambino cosa è il calcio, almeno il calcio che lei ha vissuto e conosciuto, come glielo spiegherebbe? «Un sogno da coltivare, da tenere sempre vivo. Il sogno che uno deve tenere sempre dentro per arrivare. Un sogno che richiede fatica, sacrificio, umiltà. Sa come lo definirei? Un sogno da lavorare».

La Redazione

 

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