Diego Maradona: «Quel Mondiale che vinsi grazie all’amore di Napoli»

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A trent’anni da quel trionfo, lui che alza la Coppa nel cielo di Città del Messico seduto sulle spalle di un tifoso (Roberto Cejas, conosciuto tanto tempo dopo), Maradona ha sentito il bisogno di raccontarsi in un libro. Ma «La mano di Dio» (Mondadori, pagg. 228, euro 18,50), scritto con il Maradona e Zicogiornalista argentino Daniel Arcucci e in uscita il 21 giugno, non è soltanto la cronaca dei giorni trascorsi da Diego e dalla Seleccion in Messico nell’86, nel fatiscente centro sportivo America, dove prima si consumò il duello con Passarella – il vecchio e cattivo capitano – e poi si cementò il gruppo mondiale. È anche un atto d’amore verso Napoli, la città in cui il campione ha vissuto dall’84 al 91, e un omaggio all’Italia, perché – chiarisce – non si sarebbe preparato così bene per affrontare la sfida senza il prezioso aiuto del professore Dal Monte, direttore del centro di medicina sportiva dell’Acquacetosa (lo suggerì il preparatore atletico Signorini perché là si era allenato Moser prima del record dell’ora stabilito nell’84 a Città del Messico), e l’indiretta collaborazione dei difensori affrontati in due campionati di serie A. «Io in Italia ero diventato molto più forte: per mettermi a terra servivano almeno quattro calci». Il prof lo migliorò con una adeguata preparazione per affrontare i 2500 metri di Città del Messico.Diego ha concesso la prefazione del libro a Victor Morales, il telecronista argentino che trasmise assolute emozioni raccontando il gol del secolo all’Inghilterra. Maradona e BaresiSi è poi messo davanti al video nella villa di Dubai e ha rivisto le altre partite. «Risento il dolore dei calci dei sudcoreani, godo di nuovo nel vedere il duello contro gli italiani, l’ebbrezza contro i bulgari, nel sentire che feci delle magie contro gli uruguaiani, nel vedere come volai contro i belgi e come esultai contro i tedeschi». E la sfida del 22 giugno contro l’Inghilterra, quella della mano de Dios e del gol più bello della storia? «L’hanno mostrata mille volte. Ma le altre partite no». Si deve partire da lontano per raccontare il trionfo. Dall’incontro con il nuovo ct Bilardo («Io ero per Menotti però a quelli del governo argentino dissi: se cacciate Carlos, cacciate anche me»), che gli offrì la fascia di capitano, alle sofferenze vissute a Barcellona per l’epatite e il grave infortunio. Poi il raggio di sole: Napoli. «Economicamente la mia situazione era un vero disastro. Ero in bancarotta, senza un soldo, dovetti ripartire quasi da zero». Albiceleste e azzurro, una cosa sola nella mente e nel cuore di Diego. Continui e massacranti voli transoceanici nelle ultime settimane del campionato 84-85 per giocare con il Napoli e con l’Argentina. E poi i trionfi al San Paolo, dal Maradona - Platinì 2forte significato extracalcistico. «Molte cose in quella città mi facevano ricordare le mie origini e anche il quartiere La Boca. Mi resi conto che ci sarebbe stato da soffrire, da soffrire parecchio, ma sapevo che anche le imprese difficili erano quelle che preferivo. Giocare nel Napoli fu la migliore preparazione possibile per il Mondiale del Messico. Innanzitutto perché mi fecero sentire importante, mi fecero sentire necessario, cosa che ormai nel Barcellona non accadeva più. In secondo luogo perché ero obbligato a essere al top sul piano fisico per eludere le marcature di avversari sulla carta superiori. La lotta, nel Napoli, sì che si sentiva. Contro tutti e tutto. Era la battaglia del Nord contro il Sud, quella battaglia che mi fortificò e mi permise di fare ciò che più mi piace: difendere una bandiera. E se era la bandiera dei più poveri, meglio ancora».Ricco di particolari e riflessioni il racconto delle settimane trascorse nel fatiscente centro sportivo America, a cinque minuti dallo stadio Azteca. Appena arrivati, i giocatori misero le lampadine e sistemarono gli spogliatoi. Diego era in camera con Pasculli; Carmando, il massaggiatore arrivato da Napoli, divideva l’angusta stanza con tre dello staff tecnico argentino e cucinava la pasta. «La mia dieta». C’erano un solo televisore e un solo telefono. A fare chiamate verso l’estero soltanto Passarella, il capitano della Coppa del 78, vinta dalla Seleccion a Buenos Aires mentre era in atto la sanguinosa repressione dei colonnelli. Vi fu un duro scontro con Daniel, quando davanti agli altri giocatori Diego ammise di fare uso di droga e lo alemao-careca-maradonaavvertì: «Non mettere in mezzo altre persone, infame». Lo accusò di chiamare dall’unico telefono, costi a carico della squadra: «Tu che guadagni due milioni di dollari all’anno». Passarella si isolò, non giocò al Mondiale per problemi fisici. Maradona diventò il Capitano, prima ancora della sfida con l’Inghilterra e della finale con la Germania, con quello strappo dal vecchio lìder e con quel discorso: «Se vince uno, vinciamo tutti. Se guadagna uno, guadagniamo tutti». Quanto guadagnarono i campioni del mondo? Lo precisa Diego con ironia: «A testa 33mila dollari, capite?». Ma c’era la forza del gruppo, sintetizzata così da Valdano e ricordata da Diego nel libro: «Una squadra destrutturata capace di trasformarsi in un gruppo inviolabile». E molto scaramantico, con quei riti prepartita: Carmando che fasciava così forte le caviglie di Diego da trasformarle in due pezzi di gesso, la Madonna di Lujàn nel solito angolo, il disegno di un calciatore fatto per terra dal campione. «Nessuno camminarci sopra».Tutti intorno a Maradona. «Che cazzo c’entrano le tattiche di Bilardo? Neanche sapevamo come avremmo giocato. C’era la squadra, soltanto la squadra». L’irresistibile cavalcata. Con una sorpresa rivelata dal campione. La migliore partita ai Mondiali? Né quella con l’Inghilterra né quella con la Germania, ma quella con l’Uruguay. Certo, la sfida del 22 giugno contro l’Inghilterra è Storia. «Se fosse stato per gli argentini saremmo dovuti uscire tutti con una mitragliatrice e uccidere Shilton, Stevens, Butcher…». Diego non pensò alla guerra delle Malvinas, li Maradona_platini_1986-87uccise con la sua grande furbizia appresa a Villa Devoto («La mano de Dios? Ho cominciato a fare là i gol con la mano») e con la sua immensa classe, con i cinque inglesi scartati uno dopo l’altro, fino alla conclusione che gli era stata suggerita dal fratello Raul, quando era bambino. «Mi ero trovato in una situazione di gioco simile anni prima e lui, dopo aver visto il mio tiro in tv, mi disse: hai sbagliato Pelu (Pelusa il suo primo soprannome), dovevi tirare dall’altro lato». Se ne ricordò quel giorno all’Azteca, dove gli argentini indossarono maglie azzurre acquistate in alcuni negozi di di Città del Messico e sistemate alla men peggio dai magazzinieri. Poi arrivò la finale contro i tedeschi, la Coppa del mondo finalmente alzata al cielo. «Non la diedi a nessuno, la cullai come un bambino»: le stesse parole che avrebbe detto, vent’anni dopo, Fabio Cannavaro, il capitano dell’Italia mondiale a Berlino. Affacciandosi dalla Casa Rosada, il palazzo presidenziale a Buenos Aires, «mi sentii come Peron».Questo libro è un amarcord ma anche un manifesto tecnico e politico di Diego. Suggerisce ai calciatori di oggi: «Alla rete avversaria bisogna arrivarci bene, non necessariamente in modo veloce». Attacca Infantino, neo presidente della Fifa: «Estraeva le palline nei sorteggi, è stato il segretario di Platini per nove anni». Chiede che i giocatori trovati positivi all’antidoping – a lui accadde nel 91 e nel 94 – non siano squalificati ma riabilitati. Auspica che il Diego+Maradona+Gonzalo+Higuain+Argentina+v+hRZuK30CrOLxgoverno del calcio mondiale prenda esempio dalla pulizia fatta in Vaticano da Papa Bergoglio, chiamato Francisquito: «Trasparenza, dalla parte della gente». Insulta Bilardo, che lo tradì dopo il suo fallimento da ct ai Mondiali sudafricani, e il defunto presidente Grondona, «il primo che sarebbe stato arrestato per lo scandalo Fifa». Rivela equivoche parole di don Julio prima della finale Germania-Argentina ai Mondiali del 90: «Diego, in fondo noi abbiamo già vinto, il secondo posto va bene». Dice a Messi: «Si prepari da solo, come feci io nell’86, per vincere i Mondiali nel 2018. Ma non potrà fare le cose che ho fatto io a Napoli». Gli diedero del matto trent’anni fa. «Quando dissi che avremmo vinto. Oggi sono uno dei pochi argentini che sa quanto pesa una coppa del mondo».

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Fonte: Il Mattino

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