Per la 2/a Coppa Italia del Napoli nel giugno 1976 fu trionfo da capitano per Juliano
Era un Napoli vincente, da tre anni nelle mani di mister Vinicio. Terzo e secondo posto in serie A nei primi due anni di «’o lione», la squadra si era qualificata per due volte in Coppa Uefa. Una squadra con sette napoletani: ai titolari Juliano, Massa e Esposito, si aggiungevano Vincenzo Montefusco, Luigi Punziano di Pozzuoli, Pasquale Casale, Pasquale Fiore. Altri tempi. Dopo lo scudetto sfumato a Torino l’anno prima, Vinicio ci riprovò e il presidente Ferlaino gli mise a disposizione un pezzo da Novanta. Era Beppe Savoldi, il centravanti del Bologna, convinto dal direttore sportivo Janich a trasferirsi a Napoli. «Ci vuole una barca, ma proprio una barca, di soldi» aveva detto a Ferlaino il presidente del Bologna, Luciano Conti. E barca fu: un miliardo e 400 milioni più la cessione al Bologna di Sergio Clerici e Rosario Rampanti. Conti alla mano, facevano due miliardi.La squadra aveva avuto pochi ritocchi, l’entusiasmo dei tifosi era a mille dimostrato dai 70mila abbonamenti venduti. La città, avviata ai suoi otto anni di amministrazioni di sinistra con il sindaco Maurizio Valenzi, si accendeva per una squadra che divertiva. Il 7 dicembre del 1975, con la vittoria a Roma contro la Lazio, gli azzurri erano primi davanti a Juve e Torino. Fu quel giorno che, in modo spontaneo, nacque il vero inno dei tifosi del Napoli non imposto dalla Società né da, allora inesistenti, sponsor: «‘O surdato nnammurato». Sugli spalti fu, per la prima volta, tutto un «Oj vita, oj vita mia, oj core ‘e chistu core» e «il Mattino» aveva titolato il pezzo dell’inviato Peppino Pacileo con il classico «Canta Napoli». Quel precedente fu richiamato dall’inviato Romoletto Acampora anche nella notte magica di martedì 29 giugno 1976. La notte della seconda vittoria in Coppa Italia, vissuta in agrodolce per l’anticipato addio di Vinicio. Il mister di un Napoli vincente aveva lasciato prima della fase finale di Coppa. Lo avevano infastidito le voci sui contatti tra il presidente Ferlaino e Bruno Pesaola. Se ne andò e firmò poi con la Lazio. La squadra si inceppò in campionato, finendo al quinto posto, ma nella fase finale di Coppa Italia andò avanti, affidata agli allenatori in seconda Alberto Delfrati e Rosario Rivellino, ex calciatore azzurro che aveva alzato la Coppa Italia nel 1962. La squadra, rimasta senza il suo leader in panchina che aveva acceso entusiasmi e gioco, vinse. Gli azzurri scesero in campo all’Olimpico determinati a giocarsi la finale con il Verona, salvo dalla retrocessione all’ultima giornata e allenato da Ferruccio Valcareggi già Ct della Nazionale. La formazione era quella di Vinicio, con la rocciosa difesa di Bruscolotti, La Palma, Burgnich e lo stopper Giovanni Vavassori. Poi il centrocampo illuminato da Juliano, con Orlandini, Massa, Esposito. Un centrocampo a prevalente lingua napoletana. Con Braglia, stavolta c’era Savoldi, lo strapagato Beppe-gol.
La vittoria
Tutto si sbloccò in pochi minuti. Il Verona aveva resistito a lungo, ma, a 15 minuti dalla fine, si arrese alla supremazia napoletana e ai gol di Esposito, Braglia e due volte Savoldi. Era la seconda Coppa Italia, a 14 anni dalla prima. Ma era anche la prima Coppa Italia per Burgnich che pure con l’Inter aveva vinto di tutto. E fu anche il primo trofeo che Totonno Juliano, il capitano nato a San Giovanni a Teduccio, alzò con la maglia che amava tanto. Altri tempi, sentimenti da libro «Cuore», ma il Napoli con tanto sangue meridionale in rosa, sapeva ancora commuoversi senza calcoli di sponsor, ingaggi, agenti. «Trionfo azzurro: fulminato il Verona in 3 minuti» titolò «Il Mattino» sul pezzo dell’unico inviato Romoletto Acampora. Il Napoli accedeva alla Coppa delle Coppe, terzo anno consecutivo in Europa, e scriveva Romoletto: «La conquista della Coppa Italia, se rende giustizia alla squadra azzurra, ai suoi giocatori e a chi li ha diretti, permette al club partenopeo di chiudere con un bilancio soddisfacente una stagione che rischiava di farsi in pieno deludente». Fu la Coppa del riscatto, che chiudeva il ciclo delle meraviglie di Vinicio. Era raggiante Juliano, che da capitano alzò la Coppa ricevuta dal presidente della Lega, Franco Carraro: «Questa volta ce l’ho fatta, che gioia, che sensazione di grandezza, la dedico ai tifosi». A Napoli la gente in festa invase le strade. «Eccoli i napoletani in tutta la loro napoletanità, soldati di prima linea innamoratissimi della squadra» aveva scritto Peppino Pacileo, commentando l’illusoria vittoria a Roma contro la Lazio che segnò l’esordio tra i tifosi di «’O surdato nnammurato». Anche la sera della seconda Coppa Italia fu la colonna sonora della gioia.
Fonte:Il Mattino