Diventò presidente a due giorni da Napoli-Milan, quella che tanti anni dopo – nell’era di Maradona e del trio olandese rossonero – sarebbe diventata la sfida per lo scudetto. Corrado Ferlaino, classe 1931, aveva 37 anni. Figlio di un calabrese e di una milanese («Forse per questo sono sempre puntuale agli appuntamenti»), si era sposato giovanissimo e aveva intrapreso l’attività di costruttore, dopo la laurea in ingegneria, nella zona collinare di Napoli, in Cilento e in Abruzzo. La passione sportiva era più per le auto da corsa (esordio nel 1957 nella Sorrento-Sant’Agata sui Due Golfi: primo posto nella classe 1300 e poi altri successi in giro per l’Italia) che per il calcio, anche se era stato giocatore dilettante di discreto livello.Una carriera chiusa dopo l’aggressione ad un arbitro, ricordata così da Roberto Ciuni, già direttore del “Mattino”, nel libro “Il Pallone di Napoli”: «Giocava tornei intersociali indossando la maglia a strisce del Tennis Vomero. Terzino, interno destro, interno sinistro, ala, laterale. Finché, nel dicembre 1960, fu coinvolto in una rissosa Tennis Vomero-Circolo Forense, lo squalificarono per un bel po’. Nel 1964, squalifica a vita per le botte ad un arbitro. Dirà Ferlaino ricordando l’episodio: “Era un arbitro piccolo piccolo. Pensai: se non lo picchio oggi, un arbitro, non lo picchierò mai più”».Quella sera del 18 gennaio del ‘69, alla fine del consiglio d’amministrazione riunito nella sede del Napoli in via Chiatamone 57, nessuno avrebbe immaginato che per quel giovane ingegnere diventato azionista con una quota di 100mila lire (numero 5 azioni) una presidenza che sarebbe durata 33 anni, fino al 12 febbraio 2002.Era un periodo molto complicato della vita del Napoli, con gli scontri tra il Comandante Achille Lauro e l’amministratore delegato Roberto Fiore, che era stato pochi anni prima il presidente dei 70mila abbonati e della squadra in cui giocavano Altafini e Sivori. Vi erano forti contrapposizioni all’interno di quella società che veleggiava tra sogni (di scudetto) e bisogni (di assestamento finanziario) e Ferlaino inizialmente faceva parte della “squadra” di Fiore, conosciuto grazie all’amico Enrico Verga, imprenditore e titolare della farmacia di Capri, che sarebbe stato al fianco dell’ingegnere nei dorati anni Ottanta diventando il migliore amico di Ottavio Bianchi, l’allenatore dello scudetto e della Coppa Uefa. Proprio con Bianchi, definito calciatore-sindacalista dai cronisti dell’epoca, Ferlaino ebbe forti contrasti una volta diventato presidente. Era arrivato all’ambita poltrona con un’abile mossa acquisendo il 30 per cento delle quote di Antonio Corcione, il presidente scomparso il 7 dicembre del ‘68. Toccava alla vedova Aurora Sandoval assegnare quelle azioni. Ferlaino non aspettò Fiore davanti al palazzo di via Manzoni per andare a trattare, fece rapidamente le scale e offrì alla signora una sostanziosa cifra – chi scrisse 80 milioni, chi 120 – per quel 30 per cento. Completò la scalata, arrivando alla maggioranza (51 per cento), grazie alla quota di Fiore, con cui i rapporti diventarono poi ostili.
Era una situazione così tortuosa da spingere “Il Mattino” a pubblicare il 19 gennaio del ‘68 questo corsivo: «Non si capisce niente. Una soluzione che ad occhio e croce non risolve nulla: presidente un uomo nuovo. Che farà Ferlaino? Che farà Fiore? Che farà Lauro? La fine, ahinoi, non si prevede per il prossimo numero. Ma Agatha Christie ormai è subissata». Come fosse un giallo. Ferlaino aveva 37 anni e non conosceva il mondo del calcio. Ma sapeva come muoversi, partendo dall’attenta lettura dei bilanci. E infatti dichiarò a Romolo Acampora, prima firma del “Mattino”: «Io sono un uomo di azione, oltre che uno sportivo militante. Nel Napoli, se accetterò di esserne il presidente, porterò qualcosa di nuovo, la mentalità del giovane industriale che ho nei miei affari. Insomma le prime cure le riserverò alla società, intendendo fare del Napoli un modello da ogni punto di vista». E, una volta assunta la presidenza, aggiunse: «Partiamo da un debito di 780 milioni. Cureremo il bilancio e il vivaio. Lo scudetto? Non si promette ma si vince». Nel suo libro “Storia del Napoli” Gigi Di Fiore ricorda questa altra dichiarazione del futuro presidente dei due scudetti, della Coppa Uefa e dei grandi colpi di mercato: «Come i Borbone hanno fatto grande Napoli io farò grande il Napoli». Il Comandante Lauro, ammiratissimo dal nuovo presidente, rassicurò i tifosi: «’O guaglione non è fesso».
I 780 milioni di debito spinsero Ferlaino non soltanto al repulisti della precedente dirigenza ma anche ad effettuare una serie di cessioni, partendo da quella di Claudio Sala al Torino per 480 milioni. Proprio lui che negli anni successivi avrebbe preso campioni del livello di Maradona, Careca, Krol e Savoldi mirando sempre in alto, a quello scudetto che vinse nel 1987, dopo diciotto anni di presidenza. Sullo sviluppo del vivaio mantenne la promessa: il suo primo trofeo fu il Torneo di Viareggio con la Primavera guidata da Rosario Rivellino nel ’75 e il primo tricolore della sua storia il Napoli lo vinse con i giovani allenati da Mario Corso nel ‘79, tanti di quei ragazzi avrebbero poi fatto parte dello squadrone di Maradona. Capì, l’ingegnere, che i grandi calciatori erano importanti ma non erano tutto. Per vincere si dovevano creare alleanze nel Palazzo – e questo accadde dopo anni di forti contrasti, in particolare col mondo arbitrale – e dotare la società di infrastrutture, come il Centro Paradiso costruito a Soccavo. E poi di una sede di prestigio dei Napoli, quelle di via Crispi e piazza dei Martiri, dove il presidente si affacciò l’11 maggio dell’87 per ricevere gli applausi dei tifosi per lo scudetto.
Fonte: Il Mattino