Albertino Bigon: “La frenata dell’Inter è inattesa. Quando due squadre sono così vicine, la differenza la possono fare poche cose”

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L’ex allenatore del Napoli, Albertino Bigon, ha parlato in un’intervista a Il Mattino, in cui tra le altre cose ricorda il suo periodo sulla panchina del Napoli, e analizza il percorso del Napoli di Conte.

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Bologna fa rima con scudetto. Era il 22 aprile del 1990, trentacinque anni fa, quando vincendo per 4-2 al Dall’Ara, gli azzurri presero ago e filo e iniziarono a cucirsi lo scudetto. Il secondo della storia. Il sarto aveva il nome di Albertino Bigon. «Quel Napoli non era solo Maradona: c’era dentro l’anima di Ferrara, il sacrificio di Carnevale che portava la croce, i gol di Careca, un centrocampo dove dovevo scegliere tra Fusi, Crippa, Alemao e De Napoli». Ora Bigon vive sul Colli Euganei. E continua a seguire con passione il calcio.

Il Napoli torna a Bologna. Dove, in pratica, è stato conquistato il secondo scudetto.
«Ci sono posti speciali per le squadre di calcio e lì vivemmo una domenica straordinaria perché nel frattempo il Milan cadeva a Verona. Lo stadio era pieno di tifosi, una vera invasione. E sette giorni dopo il gol di Baroni alla Lazio ci diede lo scudetto».
Può essere un lunedì speciale?
«La frenata dell’Inter è inattesa, resta per me quella di Inzaghi la rosa più completa. Ma quando due squadre sono così vicine, la differenza la possono fare poche cose: e le trappole arrivano sui campi delle “piccole”. E lo dice uno che nel 1973 ha perso uno scudetto nelle “fatal Verona” con il Milan».
Nel 1990 una monetina, dice ancora Sacchi, fece la differenza…
«Una fesseria insopportabile. Quel punto che ci diede la giustizia sportiva non ebbe peso sulla classifica. E poi, quelle erano le regole. Erano sbagliate? Infatti le cambiarono. Ma è una idiozia sentir ancora parlare della 100 lire di Alemao».
Ha visto le foto del corpo senza vita di Maradona?
«Io non riuscirò mai a capire come uno della sua grandezza, un uomo che ha fatto felici generazioni di milioni di tifosi in tutto il mondo, sia morto così da solo, totalmente abbandonato in una casa. Io ancora non lo accetto, mi fa rabbia».
Conte è stato un suo calciatore.
«Un predestinato. E per colpa sua litigai anche con il mio grande amico Giovanni Trapattoni. Io allenavo il Lecce e mi chiese che ne pensavo di Antonio, se era pronto per la Juventus. “Certo, nella testa e nei piedi”, risposi ingenuamente. Mi promise che lo avrebbe preso solo in estate ma era un inganno. A novembre già era a Torino. Ma al Trap l’ho perdonato subito».
Il tecnico del Napoli dice che è più divertente vincere da giocatore che da allenatore.
«È saggezza pura. Nel 1978, sia pure da veterano, avevo vinto lo scudetto della stella con il Milan con una squadra di ragazzini come Buriani, Novellino, Antonelli, Collovati, Baresi. I saggi eravamo io. Albertosi, Bet, Capello e ovviamente Rivera. Nulla a che vedere con le notti insonni vissute con il Napoli per discutere e confrontarmi con i leader di quella squadra super».
Dove insegnò a tutti cosa era il sacrificio.
«Il mio 10 all’inizio, senza Maradona, era Massimo Mauro. Un altro simbolo. Avevo imparato da Maestrelli, Rocco e Liedholm cosa significava mettere da parte se stessi squadra. Per il bene del Milan, Rocco una volta a San Siro contro la Juve mi fece marcare Causio. Ma lui mi diceva che ero il suo miglior attaccante. E mi mandava in attacco a prendere le botte».
Conte fa più o meno così.
«Ha vinto tantissimo, sa come pretendere il massimo dai suoi uomini. In questo è un leader straordinario: il mio Napoli sapeva essere essenziale e pratico. Non c’è nulla di più bello a vincere così».
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