La mattina, la sera, ma anche al pomeriggio, Ciro Muro – che adesso ha 60 anni – fa un giro dentro di sé e si smarrisce ancora: sta a Napoli, già abbagliata dalla luce, e il destino sembra avergli indicato la via. Ma quando si è giovani, talvolta, si scopre cosa significhi l’inquietudine e non avendo in sé il dono della pazienza ma quello del talento, per prendersi la vita decide di dribblare il destino. Nel Napoli del primo scudetto, quindi nella Storia, Ciro Muro si infila dal portoncino principale: ma la fretta, e lo dicevano sempre le nonne, è cattiva consigliera e quel genietto che incuriosiva volle sfidarsi, osare spericolatamente, uscendo dalla propria comfort zone. Ciro Muro accarezzava i palloni fino a spingere a paragoni divenuti giochi di parole incrociate: resta l’enigma e chissà come sarebbe andata standosene a casa propria.
Ciro, ci pensa, avrebbero potuto (magari) cantare: “Ho visto Murodona”?
“Non arrivo a questo ma una volta un titolo del genere mi venne dedicato da un giornale: ‘Murodona’. Fu dopo un gol a Firenze, su punizione”.
E lei, commentandolo, disse: “penso di avere più tendenza a fare lo Zico o qualcosa del genere”.
“Poi Diego arrivò in ritiro, era seduto vicino a me. Per cortesia, mi passi il sale… Glielo diedi in mano. No, si poggia sul tavolo. Era scaramantico, sa… È vero che preferisci Zico? No, non è così, ho dichiarato altro, non mi sarei mai permesso….Vabbè, dopo mi vedrai in allenamento”.
Lo vide e…?
“Gli andai incontro: sei inimitabile. Ma io non ho fatto confronti. Sorrise. E rimanemmo chiusi in albergo, perché dal momento in cui era arrivato lui, non si poteva più uscire, fuori erano in migliaia”.
Con il Napoli ha vinto lo scudetto 1986-87 (giocando 11 gare e segnando un gol) e la Coppa Italia (segnando nella finale d’andata).
Ciro Murodona che ha combinato?
“Ho preso per due volte il biglietto della lotteria e l’ho strappato. La prima, quando decisi di andar via da Napoli e passare alla Lazio in B: volevo giocare, con lui davanti e in quella squadra ci riuscivo ma non come sognavo io, che puntavo a diventare il Totonno Juliano del Napoli. Diego mi parlò: resta qua, il futuro ti appartiene, vedrai che ci sarà modo…Pensi che avevo un contratto quinquennale”.
Però alla Lazio andò bene.
“E lì feci la seconda sciocchezza. Eravamo stati promossi in Serie A, c’erano Ruben Sosa, Dezotti, Gutierrez, Paolo Di Canio. E c’era chi diceva: qua il sudamericano sei tu. Mi telefona Gigi Simoni, mi invita ad andare a Cosenza, io avevo ancora tre anni con la Lazio. Dissi di sì. E non ce l’ho fatta più a tornare tra i grandi. Potevo starci, ma chi sbaglia paga e io non contento del primo errore ne commisi un altro. Avessi dato ascolto a Diego, a mio padre che non voleva andassi via da qui…”.
A Napoli la portò Allodi.
“Mi riprese dal Pisa. Credevo di trovare spazio ma non era facile. Bianchi pensò di spostarmi sulla corsia – e mi mancava il fisico – o di mettermi play pur di farmi giocare, ma a me piaceva divertirmi. E arrivò Ciccio Romano, che cambiò il volto della squadra. Ho disfatto tutto io. La decisione di staccarmi me la porto dentro. Ero cresciuto nel Napoli, ci ero arrivato da Portici, direttamente dal collegio. Persi mamma che avevo cinque anni e papà mi iscrisse al “Cristo Re”. Ho un fratello, Giovanni, che partecipa ai Master di biliardo: in casa uno bravo con le mani e un altro con i piedi. Ma io volevo andare veloce, mi piaceva poter avere un giorno la fascia al braccio. Ci pensavo tutte le sere a Soccavo, dove dormivo, unico napoletano. Non avevo mai frequentato scuole calcio, ero un talento naturale, di strada ma nel senso buono. Istinto. Bagni impazziva per me, perché avevo la mania dei tunnel”.
Ciro MuroDiego mi parlò: resta qua, il futuro ti appartiene, vedrai che ci sarà modo. Non lo ascoltai
Era il Napoli dei napoletani.
“Io, Ferrara, Caffarelli, Di Fusco, Bruscolotti, Carannante, Zazzaro, Volpecina, Filardi, Celestini, Puzone. Poi con l’arrivo di Moggi cominciarono le prime cessioni, l’asse con il Torino. Ma il responsabile di me stesso resto io: ci ho messo del mio, tanto, ma doveva andare in questo modo. Dal momento in cui è cominciata la discesa è stato impossibile rialzarsi. Non ho avuto neanche fortuna: a Taranto incontro Caramanno, un gentiluomo e un maestro, lui non mi dava soltanto la maglietta – la 10- come gli altri ma mi spiegava cosa fare. Finisce il campionato e fallisce la società. Avevo un procuratore, Caliendo, quello di Baggio, tra i più bravi: incappò in una disavventura, non potè più seguirmi. Magari si sarebbe opposto. Ma chi può dirlo?”.
Qualcosa dentro le è rimasto, e non è poco.
“Ventisei presenze nella stagione dello scudetto e della Coppa Italia, undici in campionato. E però se lei mi chiede un fotogramma, ripenso a Tolosa, Coppa Uefa: do una palla a Carnevale, può valere il pari e la qualificazione. All’andata avevamo vinto 1-0; al ritorno stavamo sotto e con l’1-1 ne avrebbero dovuti fare altri due per la regola dei gol in trasferta. Miracolo del portiere. Uscimmo ai rigori”.
Sbagliava (ma raramente) anche Diego. E lo fece dagli undici metri.
“Però lui era Dio in terra”.
Allenare le dà gusto, comunque.
“Da vent’anni sto in panchina. Ho fatto anche quattro stagioni nel settore giovanile del Napoli di De Laurentiis. E sono arrivato due volte in finale con i Giovanissimi. Con Caffarelli si è fatto un buon lavoro. E ora ci sta provando Grava, con impegno. Non è facile, si investe poco, e da qua i ragazzi se ne vanno. Potessi fermarli, glielo direi: non fate come me. Ve ne pentirete”.
Fonte: Gazzetta