Napoli Estate – Eravamo in 82.636, quanti non riesci più a contenere in un impianto sostenibile e sicuro

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Nel calcio ci sono momenti che non dimenticherai mai. Essere stato spettatore di un’impresa che vanifica ogni tentativo di trovare una spiegazione razionale occupa per sempre uno spazio nella tua memoria, senza che nulla possa cancellare quel ricordo. È successo a tutti quelli che il 3 novembre del 1985 si radunarono allo stadio San Paolo per assistere a Napoli-Juventus. Eravamo in 82.636, quanti non riesci più a contenere in un impianto sostenibile e sicuro. Ma, ieri come oggi, quando arriva la Juve, ogni sfida diventa appuntamento di gala. Per il Napoli da 12 anni quella era la partita stregata, anzi maledetta. Fino a quel giorno, di stagione in stagione si era nefastamente allungata la litania delle occasioni mancate, come in un’infilata di lamentazioni contro la malasorte che si inscenavano in attesa della grazia. E quel momento finalmente decise che era giunto il tempo di manifestarsi.

 

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Il corredo degli oggetti apotropaici sugli spalti era completo fino all’ultimo dettaglio, in campo mancava solo l’esorcista per chiudere il rito. Non poteva essere che lui, quel ragazzotto riccioluto vestito con la maglia azzurra numero 10. Il Napoli e Maradona s’erano scelti per realizzare insieme imprese speciali, mica solo vittorie contro l’Ascoli. Battere la prima squadra d’Italia sicuramente lo era, poi dopo tutto sarebbe venuto più facile, perfino l’innominabile scudetto. Ecco perché quello fu l’attimo fuggente che cambiò il corso della storia napoletana, ponendo termine anche a quella pratica dei dossieraggi che avvelenò tutti e spense il sorriso sulle tribune. Ora potevamo tornare a sorridere, grazie al nuovo principe che poi riuscì a farci piangere, raccontando una favola senza lieto fine.

 

Ma torniamo a quel pomeriggio incantato a Fuorigrotta: non erano ancora passati 28 minuti dall’inizio del secondo tempo, troppi però. L’arbitro Redini fischiò una punizione a due in area, la porta distava non più di tredici metri, sul pallone Eraldo Pecci, un passo più in là Diego Maradona che raccoglieva il corpo intorno al suo sinistro. I due continuavano a parlare fitto fitto, era passato qualche secondo e già pareva che fossero ospiti di Biscardi. Che cosa si dicevano? A distanza di 39 anni ho provato a tornare sull’argomento: giusto un mese fa, eravamo sul Frecciarossa, tra Milano e Bologna, Eraldo cominciò a stiracchiarsi, quasi a stendere la memoria.

«Continuava a ripetere, dammela piano, so dove metterla. E io, testardo: Tra barriera e portiere non passa neppure uno spillo. E lui: Ci penso io. Ripetemmo le battute altre volte, ma Diego non ha mai pensato di cambiare idea. Cambiai io, allora: questo è Maradona, per lui anche l’impossibile diventa possibile».

Andò proprio così, e chi se lo scorda più? Quando le mie schegge di passato divennero frames, cioè frammenti di immagini tv, provai a riorganizzare l’impossibile a Sky  sport, ricorrendo alla tecnologia. Non era ancora l’epoca dell’HD (alta definizione), ma anche la versione Standard poteva aiutare. Quella sequenza fu segmentata in più di cento parti: la tesi del gesto impossibile da spiegare pure in moviola conquistò altri punti, ma si materializzò anche il piacere di rendere quel godimento più lungo. Il tifo non c’entra: Maradoro (come il Mattino titolò alla sua maniera sul numero di lunedì) regalò gioia pura, al di sopra di ogni bandiera. E una cicatrice insanabile solo per Stefano Tacconi. «Io per tutti sono diventato quello che subì un gol realizzato superando ogni limite. Vi prego: non fatemelo vedere ancora, soffro ogni volta e sempre di più». La richiesta, anzi la supplica, arrivò in diretta TV durante una delle tante rievocazioni del genio maradoniano.

 

Nel calcio ci sono momenti che non dimenticherai mai. Essere stato spettatore di un’impresa che vanifica ogni tentativo di trovare una spiegazione razionale occupa per sempre uno spazio nella tua memoria, senza che nulla possa cancellare quel ricordo. È successo a tutti quelli che il 3 novembre del 1985 si radunarono allo stadio San Paolo per assistere a Napoli-Juventus. Eravamo in 82.636, quanti non riesci più a contenere in un impianto sostenibile e sicuro. Ma, ieri come oggi, quando arriva la Juve, ogni sfida diventa appuntamento di gala. Per il Napoli da 12 anni quella era la partita stregata, anzi maledetta. Fino a quel giorno, di stagione in stagione si era nefastamente allungata la litania delle occasioni mancate, come in un’infilata di lamentazioni contro la malasorte che si inscenavano in attesa della grazia. E quel momento finalmente decise che era giunto il tempo di manifestarsi.

Il corredo degli oggetti apotropaici sugli spalti era completo fino all’ultimo dettaglio, in campo mancava solo l’esorcista per chiudere il rito. Non poteva essere che lui, quel ragazzotto riccioluto vestito con la maglia azzurra numero 10. Il Napoli e Maradona s’erano scelti per realizzare insieme imprese speciali, mica solo vittorie contro l’Ascoli. Battere la prima squadra d’Italia sicuramente lo era, poi dopo tutto sarebbe venuto più facile, perfino l’innominabile scudetto. Ecco perché quello fu l’attimo fuggente che cambiò il corso della storia napoletana, ponendo termine anche a quella pratica dei dossieraggi che avvelenò tutti e spense il sorriso sulle tribune. Ora potevamo tornare a sorridere, grazie al nuovo principe che poi riuscì a farci piangere, raccontando una favola senza lieto fine.

Ma torniamo a quel pomeriggio incantato a Fuorigrotta: non erano ancora passati 28 minuti dall’inizio del secondo tempo, troppi però. L’arbitro Redini fischiò una punizione a due in area, la porta distava non più di tredici metri, sul pallone Eraldo Pecci, un passo più in là Diego Maradona che raccoglieva il corpo intorno al suo sinistro. I due continuavano a parlare fitto fitto, era passato qualche secondo e già pareva che fossero ospiti di Biscardi. Che cosa si dicevano? A distanza di 39 anni ho provato a tornare sull’argomento: giusto un mese fa, eravamo sul Frecciarossa, tra Milano e Bologna, Eraldo cominciò a stiracchiarsi, quasi a stendere la memoria.

«Continuava a ripetere, dammela piano, so dove metterla. E io, testardo: Tra barriera e portiere non passa neppure uno spillo. E lui: Ci penso io. Ripetemmo le battute altre volte, ma Diego non ha mai pensato di cambiare idea. Cambiai io, allora: questo è Maradona, per lui anche l’impossibile diventa possibile».

Andò proprio così, e chi se lo scorda più? Quando le mie schegge di passato divennero frames, cioè frammenti di immagini tv, provai a riorganizzare l’impossibile a Sky  sport, ricorrendo alla tecnologia. Non era ancora l’epoca dell’HD (alta definizione), ma anche la versione Standard poteva aiutare. Quella sequenza fu segmentata in più di cento parti: la tesi del gesto impossibile da spiegare pure in moviola conquistò altri punti, ma si materializzò anche il piacere di rendere quel godimento più lungo. Il tifo non c’entra: Maradoro (come il Mattino titolò alla sua maniera sul numero di lunedì) regalò gioia pura, al di sopra di ogni bandiera. E una cicatrice insanabile solo per Stefano Tacconi. «Io per tutti sono diventato quello che subì un gol realizzato superando ogni limite. Vi prego: non fatemelo vedere ancora, soffro ogni volta e sempre di più». La richiesta, anzi la supplica, arrivò in diretta TV durante una delle tante rievocazioni del genio maradoniano.

Lo avrete sicuramente capito: sono trentanove anni che il film di quella prodezza non mi abbandona, torna prepotentemente al minimo accenno, mi ritengo beneficiato dalla sorte per aver potuto assistere a quel numero di prestigio e – ancora di più – per averlo potuto studiare in sala di montaggio. Un inedito come tanti altri gol segnati dal calciatore che più d’ogni altro ha soddisfatto il senso estetico e scatenato il massimo delle emozioni possibili in un innamorato del calcio. Una ragione di più per considerare l’ingaggio di Maradona solo un atto propedeutico. Il meglio sarebbe venuto dopo: due scudetti, quasi tre, collezionati senza che nessuno abbia mai potuto contestarne la legittimità, la consapevolezza finalmente raggiunta che quella dimensione sia stata toccata per merito e non per un caso fortunato. Sempre attribuendo al fattore Maradona il valore imprescindibile che riveste in tutta la vicenda. Resta un interrogativo che rimarrà per sempre senza risposta: perché Diego per primo ha distrutto quell’affresco che in maniera inarrivabile aveva contribuito a concepire e a nobilitare? Tutte le interpretazioni finora tentate portano a un atto di incolpazione per Napoli e i napoletani. Come teorizzava Totò: ‘cca nisciun è fesso.

 

Fonte: Il Mattino

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