ESCLUSIVA – Nicola Bonfiglio (Mental coach): “In Italia questa figura è quasi sconosciuta. Anche i calciatori vivono emozioni da controllare”
"Quando manca la cultura della sconfitta, è tutto più difficile"
Nicola Bonfiglio, Mental Coach specializzato in Sport Coaching e Top Performance, ha rilasciato un’intervista esclusiva ai microfoni de Il Napoli Online.
Quanto conta l’aspetto mentale in uno sportivo?
“È un aspetto fondamentale al 100% sotto ogni punto di vista. Se mentalmente uno sportivo non gode di tranquillità, la giocata non riuscirà ed avrà inevitabilmente un peso sulla performance. La componente mentale è quindi sempre determinante”.
A livello europeo, quali Stati danno maggiore risalto alla figura del mental coach e come essi intervengono sull’atleta?
“In Europa, l’Inghilterra e i paesi anglosassoni danno grande risalto a questa figura, che in Italia è ancora oggi poco conosciuta e, di conseguenza, poco ricercata. Per vederla introdotta anche nel nostro paese servirebbe lavorare tantissimo sulla mente anche nei minimi dettagli affinché tutti possano comprendere i suoi benefici. Sul piano prettamente sportivo, un mental coach può avere incidenza sugli atleti sia in discipline individuali sia in sport di gruppo”.
Da poche ore sono iniziati i Giochi Olimpici di Parigi. Qual è il momento maggiormente temuto dagli atleti in una competizione sportiva?
“Quello che precede la gara, ma in genere dipende dalla personalità dell’atleta e soprattutto dal lavoro che ha fatto su sé stesso mentalmente. I sintomi più frequenti della tensione sono le gambe rigide, le palpitazioni o le più comuni farfalle nello stomaco. In tema di Olimpiadi, va ricordato che ogni atleta prepara in un arco temporale di almeno quattro anni gare la cui durata, talvolta, non supera i pochi minuti. Senza la giusta lucidità, in quel breve lasso di tempo possono svanire irrimediabilmente dispendiosi e notevoli sacrifici che si sono fatti negli anni”.
Quanto è difficile liberarsi dalla spirale negativa che talvolta affligge uno sportivo dopo un insuccesso?
“Se non si è abituati, può diventare difficilissimo. In Italia manca completamente la cultura della sconfitta, a differenza dei paesi orientali dove, per esempio, il gesto tecnico in sé è molto più importante del risultato finale. In Italia purtroppo si guarda soltanto al risultato finale senza approfondire i diversi aspetti che hanno portato a quella sconfitta. Con un giusto approccio ad essa, è possibile imparare tantissimo: contrariamente a quanto si può immaginare, nel curriculum dei migliori atleti di qualsiasi disciplina, se si analizzano le sconfitte queste sono superiori alle vittorie. La chiave dei loro successi è stata di trasformare, nel corso del tempo, i propri punti di debolezza in punti di forza lavorando su sé stessi sia fisicamente che mentalmente”.
Restringendo l’orizzonte al calcio giocato, l’Italia è reduce dal clamoroso flop ad Euro 2024 e chi è sceso in campo contro la Svizzera è parso totalmente privo di motivazioni. A tal proposito si sostiene spesso che i calciatori vivano in un mondo a parte: è realmente così oppure anche loro provano emozioni?
“I calciatori sono esseri umani come chiunque altro, e di conseguenza sono anche loro persone fragili. Il punto è che, svolgendo questo lavoro, hanno raggiunto più facilmente il successo e quindi sono visti dalla gente come supereroi. Se non si lavora su determinate fragilità in cui sono attanagliati, i punti deboli possono andare fuori controllo e rischiare d’inficiare la prestazione. In più va ricordato che un calciatore professionista è sottoposto a notevoli situazioni in cui è fortemente esposto all’immediato giudizio altrui, come ad esempio in una conferenza stampa al termine della partita o per qualsiasi gesto tecnico o atteggiamento extra-campo sbagliato. Quando ci si spinge oltre i propri limiti e si fanno cose che prima non si facevano, si viene giudicati anche per elementi di poco conto. Al giorno d’oggi è necessario saper gestire le proprie emozioni: accade di frequente che, in base a giudizi negativi espressi in particolare sui social network, si creino danni irreparabili nella psiche dei giovani”.
In chiusura, cosa suggerisci ai giovani che decidono di fare dell’attività agonistica la propria ragione di vita?
“Innanzitutto, di essere sé stessi e non associare il ruolo professionale con la propria vita personale. È fondamentale avere sempre ben focalizzato tutti i giorni l’obiettivo finale ed il motivo per il quale si vuol fare di quel determinato scopo la propria ragione di vita, lavorando quotidianamente sulla mente”.
Intervista a cura di Riccardo Cerino