Mimmo Carratelli: “Quarant’anni fa, un giovedì, apparve Diego Maradona venne accolto da violinisti
I l 5 luglio di quarant’anni fa fu un giovedì bello e splendente, a Fuorigrotta. Nello stadio c’erano settantamila napoletani in attesa sotto il sole. Attorno, si dispiegò tutta la variegata gastronomia partenopea di pizze e pizzette, panini prosciutto e mozzarella, porchette, friarielli e taralli, panzarotti e crocchè, frittate di pasta e pasta cresciuta, birra e coca. Il pittore salernitano di madonne stradali Alfredo De Leva, che le dipingeva sui marciapiedi, usò i suoi gessetti colorati per comporre sull’asfalto di Fuorigrotta un gigantesco ritratto di Maradona coi riccioli neri e la maglia azzurra.
Si seppe che Diego sarebbe arrivato verso le sei del pomeriggio. Dalla mattina, Fuorigrotta divenne un grande bazar attorno al “San Paolo” e, alle quattro del pomeriggio, erano già in molti dentro lo stadio. Mille, duemila e tremila lire il costo dei biglietti per i tre ordini di posti. Sul prato del “San Paolo” comparvero majorettes di Posillipo e Mergellina e suonarono violinisti danzanti. Sugli spalti, bandiere, striscioni, registratori portatili con le prime musiche inneggianti. C’erano donne e bambini, giovani e vecchi, famiglie intere, gente dei rioni popolari e dei quartieri-bene. Furono 253 i giornalisti accreditati, 78 i fotografi e nove le reti televisive per la ripresa dell’avvenimento.
Si fece incantare l’orologio del “San Paolo” che, per l’emozione, era fermo all’una e mezza ed erano invece già le sei del pomeriggio. I ragazzi della Curva B picchiarono sui tamburi di gioia. Sulla pista dello stadio, cominciò a girare una Dyane azzurra. Sulle fiancate portava scritto con lo spray blu scuro: “Viva il nino de oro”. Sul cofano aveva un gigantesco numero 10. Venne srotolato il più grande striscione di benvenuto. Diceva: “Nel cielo di Napoli ci sono tante stelle, Maradona è la più splendente”. Era un telo lungo venti metri.
E scoccò finalmente il tempo dell’emozione massima, le 18.31 del 5 luglio 1984. Un respiro accentuato, un aguzzare di occhi, un ondeggiamento sugli spalti e la liberazione di un “oooh” di meraviglia. Nella ressa dei fotografi, sotto il ronzio delle telecamere, nell’agitarsi di inservienti e poliziotti, Maradona sbucò dal sottopassaggio sotto la Curva A. Il re era arrivato. Tutti videro un piccolo ragazzo di un metro e 68, la testa di riccioli neri, due gambe massicce e una faccia da scugnizzo. Ovazione immediata.
Maradona si presentò in pantaloni chiari di una tuta, una maglietta bianca sponsorizzata dalla Puma, una sciarpa azzurra e, ai piedi, scarpette da ginnastica. Tremò lo stadio per il boato che sprigionò e che si diffuse per tutti i Campi Flegrei e salì sino alla collina di Posillipo. Sugli spalti furono accesi fuochi d’ogni colore. Potenti fumogeni sprigionarono nuvole azzurre.
Diego fece un giro di campo, seguito dal codazzo dei fotografi. Salutò. Al centro del campo c’era un tappeto di caucciù, azzurro. Maradona si fermò sul tappeto, gli fu dato un microfono. Dagli altoparlanti uscirono rumori confusi. L’agitazione cessò, ci fu un improvviso silenzio. E arrivarono le parole magiche del pibe che si diffusero nello stadio.
«Buonasera, napolitani. Sono molto felice di essere tra di voi».
Un boato più grande scosse lo stadio. Maradona fece una pausa. Poi prese il suo primo pallone napoletano e tirò il primo calcio a Fuorigrotta col magico piede sinistro. Il pallone s’impennò verso il cielo. Fu un coriandolo, una stella filante, accompagnato da un secondo boato. Il pallone ricadde verso la Curva B dove la passione azzurra aveva il volto e le voci di ragazzi felici, ragazzi dei quartieri popolari, ragazzi della Sanità e dei Quartieri Spagnoli, di Forcella, con un loro capopopolo, Gennaro Montuori, detto “Palummella”, direttore di canti e battimani, rulli di tamburi e “ola” improvvisate.
Tutti vedemmo la faccia araba di Ferlaino che si contraeva in una smorfia di commozione, chi l’avrebbe mai sospettato, e i dirigenti del Napoli con le lacrime agli occhi, il naso d’orientamento di Gianni Punzo, il piccolo e gentile Dino Celentano,l’’elegante Isaia, Pasqualino Carbone, il vecchio Gallo con la pelle indurita dal sole e dalla faticosa fortuna fatta in Venezuela. E c’era José Alberti, l’argentino di Marechiaro.
Non c’era Juliano, sempre schivo, che aveva voluto fortissimamente Maradona a Napoli. C’era il sindaco Vincenzo Scotti che aveva mosso bene le acque stagnanti delle banche per aiutare il Napoli.
Tra i tifosi organizzati, c’era Crescenzo Chiummariello, il loro capo, una palla d’uomo, sudato e felice, cuore d’oro. C’era Peppino Di Capri. C’erano Luciano De Crescenzo, l’ingegnere che scriveva libri di amena filosofia letti in tutto il mondo, e Marisa Laurito, la nostra bella ciaciona dello spettacolo. C’erano Bruno Pesaola, il caro petisso, con gli occhi lucidi, l’immenso Vinicio con donna Flora, e Gennarino Rambone, cuore napoletano, il telefonista del Napoli Mario Parente minuscolo e astuto, e c’era, magro e impassibile, Rino Marchesi che avrebbe diretto l’orchestra azzurra col primo violino chiamato Maradona.
Prima del tramonto, la festa finì. Lo stadio si svuotò e tutti pensarono alle meraviglie annunciate del pibe per le domeniche di felicità. In città già si cantava: “Maradona è meglio ’e Pelè / ci’ammo fatto ’o mazzo tanto pe’ ll’avé”. Un venditore di limonate espose questo cartello: “Acqua, zucchero e limone. Chist’è Diego Maradona. Te rinfresca, te cunzola, pure si nun segna ’o gol”. Qualcuno inventò questa cantilena: “Aglie e fravaglie / fattura ca nun quaglie / pe’ vincere ’o scudetto / ce vo’ chesta ricetta / nu poco ’e ciorta bbona / e i gol di Maradona”. San Gennaro venne travestito da Maradona e fu Sangennarmando. I tifosi sospirarono così: “San Gennà, non ti crucciare / tu lo sai, ti vogliamo bene / ma ’na finta ’e Maradona / squaglia ’o sanghe dint’e vene”.Mimì Rea, il grande romanziere, scrisse questo mirabile ritratto: “Maradona è l’idolo di migliaia di ragazzi napoletani forse perché è un ragazzo come loro, piccolo come loro ed è stato povero come la maggior parte di loro. La faccia di Maradona la definirei un pianeta, il pianeta della miseria. Vi si legge un benessere recente, di recente si è rassodata, i capelli sono da poco cresciuti alla moda. Ma è una faccia in cui le ombre, le rabbie, le privazioni di un passato povero palpitano ancora sotto tutti quei riccioli neri, un’abbondanza nuova anche questa. Il ragazzo povero portava capelli corti da ragazzo povero di Buenos Aires. Questa faccia di Maradona da pianeta della miseria ha conquistato i napoletani prima del suo colpo di tacco. Questo è un virtuosismo, quella è una storia che i napoletani conoscono benissimo”.
Si fece incantare l’orologio del “San Paolo” che, per l’emozione, era fermo all’una e mezza ed erano invece già le sei del pomeriggio. I ragazzi della Curva B picchiarono sui tamburi di gioia. Sulla pista dello stadio, cominciò a girare una Dyane azzurra. Sulle fiancate portava scritto con lo spray blu scuro: “Viva il nino de oro”. Sul cofano aveva un gigantesco numero 10. Venne srotolato il più grande striscione di benvenuto. Diceva: “Nel cielo di Napoli ci sono tante stelle, Maradona è la più splendente”. Era un telo lungo venti metri.
E scoccò finalmente il tempo dell’emozione massima, le 18.31 del 5 luglio 1984. Un respiro accentuato, un aguzzare di occhi, un ondeggiamento sugli spalti e la liberazione di un “oooh” di meraviglia. Nella ressa dei fotografi, sotto il ronzio delle telecamere, nell’agitarsi di inservienti e poliziotti, Maradona sbucò dal sottopassaggio sotto la Curva A. Il re era arrivato. Tutti videro un piccolo ragazzo di un metro e 68, la testa di riccioli neri, due gambe massicce e una faccia da scugnizzo. Ovazione immediata.
Maradona si presentò in pantaloni chiari di una tuta, una maglietta bianca sponsorizzata dalla Puma, una sciarpa azzurra e, ai piedi, scarpette da ginnastica. Tremò lo stadio per il boato che sprigionò e che si diffuse per tutti i Campi Flegrei e salì sino alla collina di Posillipo. Sugli spalti furono accesi fuochi d’ogni colore. Potenti fumogeni sprigionarono nuvole azzurre.
Diego fece un giro di campo, seguito dal codazzo dei fotografi. Salutò. Al centro del campo c’era un tappeto di caucciù, azzurro. Maradona si fermò sul tappeto, gli fu dato un microfono. Dagli altoparlanti uscirono rumori confusi. L’agitazione cessò, ci fu un improvviso silenzio. E arrivarono le parole magiche del pibe che si diffusero nello stadio.
«Buonasera, napolitani. Sono molto felice di essere tra di voi».
Un boato più grande scosse lo stadio. Maradona fece una pausa. Poi prese il suo primo pallone napoletano e tirò il primo calcio a Fuorigrotta col magico piede sinistro. Il pallone s’impennò verso il cielo. Fu un coriandolo, una stella filante, accompagnato da un secondo boato. Il pallone ricadde verso la Curva B dove la passione azzurra aveva il volto e le voci di ragazzi felici, ragazzi dei quartieri popolari, ragazzi della Sanità e dei Quartieri Spagnoli, di Forcella, con un loro capopopolo, Gennaro Montuori, detto “Palummella”, direttore di canti e battimani, rulli di tamburi e “ola” improvvisate.
Tutti vedemmo la faccia araba di Ferlaino che si contraeva in una smorfia di commozione, chi l’avrebbe mai sospettato, e i dirigenti del Napoli con le lacrime agli occhi, il naso d’orientamento di Gianni Punzo, il piccolo e gentile Dino Celentano,l’’elegante Isaia, Pasqualino Carbone, il vecchio Gallo con la pelle indurita dal sole e dalla faticosa fortuna fatta in Venezuela. E c’era José Alberti, l’argentino di Marechiaro.
Non c’era Juliano, sempre schivo, che aveva voluto fortissimamente Maradona a Napoli. C’era il sindaco Vincenzo Scotti che aveva mosso bene le acque stagnanti delle banche per aiutare il Napoli.
Tra i tifosi organizzati, c’era Crescenzo Chiummariello, il loro capo, una palla d’uomo, sudato e felice, cuore d’oro. C’era Peppino Di Capri. C’erano Luciano De Crescenzo, l’ingegnere che scriveva libri di amena filosofia letti in tutto il mondo, e Marisa Laurito, la nostra bella ciaciona dello spettacolo. C’erano Bruno Pesaola, il caro petisso, con gli occhi lucidi, l’immenso Vinicio con donna Flora, e Gennarino Rambone, cuore napoletano, il telefonista del Napoli Mario Parente minuscolo e astuto, e c’era, magro e impassibile, Rino Marchesi che avrebbe diretto l’orchestra azzurra col primo violino chiamato Maradona.
Prima del tramonto, la festa finì. Lo stadio si svuotò e tutti pensarono alle meraviglie annunciate del pibe per le domeniche di felicità. In città già si cantava: “Maradona è meglio ’e Pelè / ci’ammo fatto ’o mazzo tanto pe’ ll’avé”. Un venditore di limonate espose questo cartello: “Acqua, zucchero e limone. Chist’è Diego Maradona. Te rinfresca, te cunzola, pure si nun segna ’o gol”. Qualcuno inventò questa cantilena: “Aglie e fravaglie / fattura ca nun quaglie / pe’ vincere ’o scudetto / ce vo’ chesta ricetta / nu poco ’e ciorta bbona / e i gol di Maradona”. San Gennaro venne travestito da Maradona e fu Sangennarmando. I tifosi sospirarono così: “San Gennà, non ti crucciare / tu lo sai, ti vogliamo bene / ma ’na finta ’e Maradona / squaglia ’o sanghe dint’e vene”.Mimì Rea, il grande romanziere, scrisse questo mirabile ritratto: “Maradona è l’idolo di migliaia di ragazzi napoletani forse perché è un ragazzo come loro, piccolo come loro ed è stato povero come la maggior parte di loro. La faccia di Maradona la definirei un pianeta, il pianeta della miseria. Vi si legge un benessere recente, di recente si è rassodata, i capelli sono da poco cresciuti alla moda. Ma è una faccia in cui le ombre, le rabbie, le privazioni di un passato povero palpitano ancora sotto tutti quei riccioli neri, un’abbondanza nuova anche questa. Il ragazzo povero portava capelli corti da ragazzo povero di Buenos Aires. Questa faccia di Maradona da pianeta della miseria ha conquistato i napoletani prima del suo colpo di tacco. Questo è un virtuosismo, quella è una storia che i napoletani conoscono benissimo”.
Mimmo Carratelli (CdS)