Pubblichiamo il contributo di Corrado Castiglione apparso nel libro “I capitani” uscito in edicola con Il Mattino lo scorso anno nel giorno della scomparsa di Antonio Juliano
Dici Antonio Juliano e dai file della memoria spunta la formazione più antica che ricordi: Zoff, Monticolo, Pogliana; Zurlini, Panzanato, Bianchi; Hamrin, Juliano, Abbondanza, Altafini, Ghio. Anno del Signor 1970. Della squadra della sua città Juliano è il capitano, tenace condottiero contro gli squadroni blasonati del triangolo industriale della Milano da bere e di Mirafiori; motore a cui tutti gli ingranaggi obbediscono. Lì in mezzo al campo, dov’è tutte le trame passano, il Capitano trotta elegante e svetta solido come blocco di marmo: il viso arcigno segnato da quei tratti orientali che gli conferiscono aria di sfida e di saggezza insieme, la suola sul pallone mentre si accinge a tirare una punizione, la mano su un fianco come un guappo buono e la fascia bianca all’altro braccio che indica ai compagni come disporsi, sulle spalle quel numero 8 che i campi della serie A conoscono bene.
Tutto comincia, come spesso accade nelle storie magiche, dal sogno di un bambino. Totonno gioca ogni santo giorno a pallone per strada, nel suo quartiere, San Giovanni a Teduccio, dove un’edicola votiva della Madonna dell’Arco porta di frequente i segni delle sue cagliose. Al padre – titolare di una salumeria in via Ferrante Imparato – tocca pagare. Quell’uomo di cui più tardi Totonno dirà: «È stato un uomo saggio e un educatore esemplare. Devo tutto a lui. San Giovanni è stata una scuola di vita. Lì ho capito che cos’erano i sacrifici. Giocare a pallone riempiva il cuore e dava la speranza di sottrarsi a un futuro mediocre».
I primi provini. I primi campionati con la Fiamma Sangiovannese. Poi a 12 anni il «salto» nelle giovanili del Napoli. È Giovanni Lambiase a scoprirlo e portarlo ad Agnano, dove si allenano gli azzurrini. Totonno frequenta le scuole medie quando, sacca in spalla, deve prendere tre autobus per arrivare fin laggiù. Ma l’impegno vale l’impresa. Pian piano entra nel giro della prima squadra. Bruno Pesaola lo fa debuttare contro il Mantova per la conquista della prima storica Coppa Italia. L’anno dopo in Serie A di fronte ai mostri dell’Inter Helenio Herrera: l’1-5 conferma che la prima volta raramente si rivela un trionfo.
Per Totonno è solo l’inizio di una lunga carriera: per 17 stagioni veste la maglia azzurra, ad appena 23 anni è già il Capitano, mezzala raffinata e con un palmares che vanta due Coppe Italia, un titolo europeo e un altro di vice-campione del mondo che gli frutterà la nomina con Saragat a Cavaliere della Repubblica. Gianni Brera lo dipinge così: «Il gioco del Napoli si fonda sulla regia di Juliano, al quale i devoti gregari portano palla con assoluta diligenza. Il Capitano azzurro fornisce, anche se a flebile ritmo, prestazioni stupende». Ma è Antonio Ghirelli che ne coglie nel profondo l’anima: «Juliano fa parte di quella razza di napoletani atipici ai quali fa difetto la fantasia e la genialità, ma solo perché fanno della serietà, della lealtà e del senso del sacrificio il loro stile di vita». E Giuseppe Pacileo azzarda: «I napoletani lo stimano e lo rispettano, ma non lo amano».
Totonno ha piedi buoni al pari di pochi altri in Italia, eppure in quel tempo gioca gente come De Sisti, Rivera, Bulgarelli. Ciò non toglie che la Nazionale si accorga di lui. È titolare dell’Italia campione d’Europa (1968), giocando la semifinale contro l’Urss e la prima finale finita in parità con la Jugoslavia. Nella spedizione mondiale in Messico (1970) però è un’altra storia: a Totonno, oscurato dal blocco interista e cagliaritano, non resta che una manciata di minuti nella finale persa contro il Brasile di Pelé. Quattro anni dopo fa parte della missione fallimentare di Monaco 1974: Totonno lascia la Nazionale prendendosi il lusso di sbattere la porta protestando contro le scelte di Coverciano considerate troppo «nordiste».
Gioca gli ultimi due anni a Bologna e nell’agosto 1978, prima di partire, a chi gli chiede se – tra due rimpianti – sia più rammaricato per la mancata conquista dello scudetto o per il dialogo interrotto con la Nazionale Totonno ammette: «Il primo più del secondo. A un titolo italiano ci tenevo veramente, per me e per Napoli. Ci siamo andati anche vicini in talune occasioni. Ma c’è sempre mancato qualcosa, meglio qualcuno, in linea tattica».
Così il rimpianto si fa promessa. Ecco perché nessuno si stupisca se una volta appese le scarpette al chiodo Totonno anche da dirigente degli azzurri continui a portare avanti, con la tenacia e la perseveranza consuete, il disegno che soltanto un napoletano affamato di vittorie può credere possibile.
Ci proverà facendo sbarcare in città Ruud Krol: traguardo sfiorato di un pelo nella sfortunata annata (1980-81) del terremoto. Ci riproverà contribuendo in maniera determinante all’arrivo a Fuorigrotta del Pibe de Oro (1984): come finirà è storia nota. fonte: Il Mattino