La prima volta – e vabbè quasi non pareva calcio, persi nell’incanto di Capodimonte – in quel silenzio che stonò, si ebbe la sensazione che le emozioni avessero travolto i pensieri: e ci sta – annusando l’aria, i capolavori e un mondo completamente nuovo – di smarrire le coordinate del savoir faire. E comunque, il 19 giugno, a due settimane dalla celebrazione dello scudetto, Rudi Garcia entrò nel Napoli e (in)consapevolmente spostò Luciano Spalletti dal Museo del calcio, evitando citazioni dotte o anche di maniera, rimanendo soffocato dall’atmosfera gioiosa che era eredità del tempo passato.
Factory della Comunicazione
Nella Moleskine di questi tre mesi, in questo viaggio avventuroso e pure surreale ma concretamente breve e tormentato, Rudi Garcia ha raccolto le proprie intimistiche riflessioni, le strategie dialettiche per affrontare quel macro universo festante, gli effetti speciali d’una magia da attraversare a petto in fuori e poi, seguendo se stesso, ha scelto percorsi che ora, magari, può riaffrontare, sistemando i ciotoli per evitare i pericoli del pavè.
In questo calcio che ha smesso – e da un bel po’ – di restare imprigionato esclusivamente in teorie e in teoremi, la comunicazione ha assunto un ruolo, le parole assumono un peso e se non diventano pietre, rischiano di trasformarsi in boomerang: la Storia (con la maiuscola, ovvio) è stata riscritta il 4 maggio a Udine, ha date, imponenza, un vissuto che non può essere banalmente ridotto ad aspetto irrilevante e persino il modo stesso in cui è stata ricostruita – Lobotka nel cuore del villaggio – è struttura portante di un’opera d’arte fatta, finita e pure esaltata che non va né accantonata e né soffocata con quel «non la conosco».
SENZA OMBRE. Non si sposta i confini delle Leggende con un soffio di leggerezza e Garcia s’è ritrovato a dover fronteggiare una dimensione (in)sospettabile con la quale chiunque sarebbe entrato in conflitto con il ricordo del calcio romanticamente sexy del calcio di Spalletti. Il Napoli di Garcia, nella legittimità delle scelte che vanno riconosciute ad un allenatore, ha lusingato altro, una identità mai palpabile nelle sue forme, e poi s’è ritrovata brutalmente prigioniero di conversioni inaspettate, di scelte ribelli, di star dello spessore di Osimhen e di Kvara trascinate dentro un’allergica normalità, di amnesie che hanno scansato il senso di appartenenza e la fluidità di Elmas e di Mario Rui, una torsione sui principi-chiave di un modello alterato e svuotato da quell’allegria trascinante.
Ma dal momento in cui Rudi Garcia ha messo piede a Napoli, nella disarmante bellezza di Capodimonte, sono trascorsi appena 116 giorni e tra gli appunti e le pagine bianche si può sempre dare uno sguardo, per ripassare il tragitto o per lasciarsi ispirare da se stesso e ritrovarsi sorridendo dentro un Club: quello degli incorreggibili ottimisti. Da un francese a un francese, ma senza evitare Napoli.