Spalletti va già oltre: “Italia ripartiamo, testa all’Ucraina!”. Non si fa l’Italia in 5 giorni

Il toscano alla prima in azzurro: « Loro l’hanno messa sul fisico, le nostre qualità non sono emerse»

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Non si fa un’Italia in cinque giorni, e questo Luciano Spalletti lo sapeva. Forse sapeva anche che quella punizione sul piede di Bardhi poteva smontare un castello costruito faticosamente in 81’ di saliscendi e infatti non aveva voluto guardarla, quasi se lo sentisse. Ancora in piedi, come aveva fatto per tutta la partita, camminando dentro e anche fuori dall’area tecnica, per teleguidare la squadra alla ricerca di spazi ancora complicati. Le mani in tasca dove erano state spesso, quando non le aveva nascoste sotto le braccia conserte. Il viso chino a guardare in terra, fra il pensieroso e lo sconsolato, tutto il film di una partita velenosa e avvelenata nel finale anche da un vivace scambio di opinioni con Milevski: Spalletti è andato a stringergli la mano, ma quello che gli ha detto il collega indicando il campo non dev’essergli piaciuto, perché Lucio se n’è andato facendo “no” con il dito, e non sorrideva granché.

 

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Come migliorare Aveva sorriso dopo il gol di Immobile, esultando due volte con la panchina. Prima della conferma del Var («È buono, è buono») e dopo il check decisivo. Ha provato a farlo poi, anche davanti ai microfoni. Ma il buono che c’è stato passa in secondo piano, perché è da quello che non è andato bene che bisognerà ripartire, e «dovremo lavorare su cosa ha detto questa partita: è l’unico elemento per cercare di trovare dei miglioramenti». E la partita, spiega Spalletti, ha detto che hanno inciso «le occasioni da gol non sfruttate anche prima del gol di Immobile, la fatica che ci ha fatto arretrare troppo e dato coraggio alla Macedonia e anche la poca qualità dentro il campo per far circolare la palla: troppa fatica per arrivare a ridosso della loro linea difensiva, eppure c’erano spazi per bloccarli dentro l’area».

 

Duelli e seconde palle Ma la vera chiave del pareggio macedone ha un nome e un cognome: seconde palle. «Peccato, perché sapevamo che la partita si sarebbe giocata lì. Se loro sparano sopra il pallone, inevitabilmente la si mette sul confronto fisico e su quei duelli la Macedonia ha costruito le occasioni che ci hanno messo in difficoltà e poi determinato il risultato. Era quello che volevano: la riconquista palla dei centrocampisti che venivano a sostegno, iniziare le loro azioni con le seconde palle. Noi ne abbiamo perse un po’ troppe, arrivavamo tardi, non sempre siamo stati pronti a ricreare il blocco squadra in fase difensiva. E loro sono stati agevolati dalle condizioni del campo».

 

Che brutto campo Dunque non era un alibi, come Spalletti l’aveva definito venerdì, allontanando la tentazione di cercare scuse in anticipo: «In realtà, vedendolo ieri, non potevamo sapere quanto potesse pesare questa insidia. L’abbiamo visto oggi nella pratica: su un campo così è stato difficilissimo tirare fuori la nostra qualità. Ci siamo riusciti qualche volta, ma il nostro livello di calcio deve essere superiore». Anche la forza morale di non vivere come un incubo il passato, e qui Spalletti diventa drastico: «Non possiamo permetterci limiti emotivi, dobbiamo avere solo la faccia tosta di mostrare dove vogliamo e dobbiamo arrivare. Se dobbiamo essere lisciati per il verso del pelo, poi diventa difficile: l’Italia ha una grande tradizione alle spalle e deve arrivare al livello che le è stato donato dalla storia e dalla qualità del serbatoio del nostro calcio».

 

Il buono di un pari Che ieri, Spalletti alla fine lo dice, ha prodotto pure attimi di buon calcio, qualcosa su cui investire e da cui ripartire già martedì, a San Siro contro l’Ucraina: «È stata anche una buona partita perché non abbiamo concesso molto, in campo siamo stati ordinati, corti, legati. Abbiamo fatto circolare bene la palla, ci sono riuscite molte ri-aggressioni veloci per riconquistare la palla in alto, non gli abbiamo concesso di cominciare dal basso una volta. Abbiamo avuto anche la tranquillità di poter scegliere i passaggi per andare a far male, quattro o cinque volte bastava valutare bene dove darsi la palla, trovare il passaggino giusto, per mettere in pratica la superiorità tecnica che abbiamo. E anche dopo aver preso gol, ci sono state situazioni al limite della loro area che avremmo potuto gestire meglio».

 

Fonte: Gazzetta

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