Caldogno era anche il paese di Marino Basso, velocista meraviglioso e sgherro. Ora è il paese dove è nato e cresciuto Roberto Baggio, il più carismatico e poetico numero 10 del nostro calcio. Sesto degli otto fratelli, si chiama così in omaggio a Roberto Boninsegna. In occasione della campagna “Tutti i campo” di cui il Divin Codino è testimonial, Pier Bergonzi, de La Gazzetta dello Sport, è andato a trovarlo. Baggio ha accettato di promuovere questa iniziativa perché si rivolge allo sport di base e pensa ai giovani e ha accettato di raccontare le sue radici.
Roberto, il suo primo ricordo di lei bambino sul campetto di Caldogno? «Le sfide interminabili con i miei compagni di scuola, i cugini, gli amici. Tornavamo a casa, mangiavano un boccone al volo ed eravamo già in campo. Giocavamo tutti i santi giorni, a oltranza finché il buio o le urla dei genitori non ci costringevano a tornare a casa. Stanchi. Sfiniti…».
Giocava nella squadra del suo paese? «All’inizio no, erano partite tra amici. E io facevo le convocazioni. Prendevo un foglio, disegnavo un palo con la bandiera dell’Italia e sotto c’erano le due squadre con le formazioni, ma i nomi erano sempre gli stessi. La convocazione era per le due e mezzo e chi non era puntuale non giocava. Non avevamo scarpe da calcio, usavamo i mocassini. Chi portava il pallone giocava sempre, ma se non era bravo finiva in porta per fare meno danni. Ma in realtà era difficile capire chi fosse più bravo, cercavamo sempre di stare in squadra con quello più alto perché faceva più paura…».
È rimasto in contatto con i primi suoi compagni di calcio? «Ma certo, praticamente con tutti quelli che sono rimasti a vivere qui in zona».
E il suo primo allenatore nel Caldogno? Se lo ricorda? «Piero Zenere, che era il fornaio del paese. Ora ha oltre 80 anni. L’ho rivisto poco tempo fa perché è venuto a trovarmi con Vittorino, il barbiere. Ora vivo ad Altavilla, a una quindicina di chilometri da Caldogno, ma vado ancora dallo stesso barbiere che mi tagliava i capelli da ragazzino».
Qual è l’insegnamento che si è portato per tutta la vita? «Una volta ti insegnavano a essere umile, a giocare per gli altri, per la squadra. Volare alto non era concesso a nessuno. Con quegli allenatori lì, dovevi stare coi piedi per terra. Era una scuola di calci… e di vita. In piccolo c’erano tuti i valori e le regole che valgono per sempre. Per me è stato così».
Piero il fornaio, Vittorino il barbiere… dietro alle squadre di calcio di paese c’è una grande storia di volontariato. «Lo sport italiano si basa sul tempo libero, sulla passione messa a disposizione da appassionati e genitori. Il sabato, uno a turno offriva la sua auto e portava in trasferta 4 o 5 di noi. Io andavo spesso col papa di Diego, che faceva il camionista, ma nel fine settimana era tutto per la squadra. Era un omone grande come una casa, o almeno a me sembrava così…. Quanti ricordi sulla sua mitica Alfetta».
Le capita di andare a vedere qualche partita di ragazzini? «Ci sono andato una volta per una partita di mio figlio e mi è bastato. Ho visto una scena terribile: genitori che litigavano per una banale situazione di gioco. Me ne sono andato e mi sono ripromesso di non tornarci più. Una volta i genitori non si potevano permettere di alzare la voce. Nemmeno col proprio figlio. Oggi credo che manchi una sana educazione sportiva e troppo spesso i genitori sugli spalti fanno peggio dei figli in campo».
Quando ha lavorato per la Federcalcio lei ha presentato un progetto pensato proprio per i giovani. «Io credo nei giovani, ci ho sempre creduto per un futuro diverso. Volevo cambiare qualcosa e ci ho provato, ma ho dovuto prendere atto che cambiare approccio o visione per aiutarli non fa parte dei programmi… Troppi interessi economici impediscono la loro valorizzazione. Non dovremmo mai dimenticare che i giovani sono il futuro e aiutarli ad esprimersi dovrebbe essere una priorità assoluta. In tutti i campi!».
A Caldogno è rientrato anche in un momento particolare della sua carriera. Dopo tre anni nell’Inter, nel 2000 si era ritrovato senza contratto ed è tornato ad allenarsi sul campetto di casa. «Per tutta l’estate mi sono allenato da solo, due volte al giorno, dal lunedì al venerdì e il sabato mattina. Lavoravo come se avessi dovuto giocare di lì a poco in un Mondiale. Io avrei voluto concludere la carriera nel Vicenza, avevo anche mandato dei segnali… Poi, una sera, mi è arrivata una telefonata di Carletto Mazzone che mi voleva la Brescia. Ho detto subito sì e sono stati 4 anni spettacolari. Abbiamo portato il Brescia in Coppa Uefa, e abbiamo perso la finale dell’Intertoto con il Psg».
Suo papà Florindo correva in bicicletta… «Buon dilettante ai tempi di Gimondi, poi si è sposato e ha avuto otto figli, ma ha continuato a correre tra i gentleman. Come in tutto ciò che faceva era spinto da una straordinaria passione. Una volta è caduto in una volata e lo hanno tenuto per una settimana a Venezia. Noi non avevamo potuto vederlo e quando è tornato a casa mi ha fatto impressione perché aveva ancora la faccia sfigurata».
In bici andavate insieme a vedere il Vicenza? «Cominciammo nei primi anni 70. Ai tempi dell’austerity, quando la domenica si usavano le auto a targhe alternate, mio papà decise di andare allo stadio in bici e mi portava sulla canna. Poi abbiamo continuato così perché ci faceva piacere. Belle quelle domeniche condivise allo stadio, arrivavo e non riuscivo manco a camminare per il formicolio nelle gambe. Ma poi vedevo il Vicenza, anche quello di Paolo Rossi, ed ero felice. Mi attaccavo alla rete dello stadio Menti per vedere meglio. Paolo era l’idolo di tutti noi ragazzi, segnava ogni domenica…».
Siete poi diventati amici. «La sua carriera è finita quando iniziava la mia. Ma avevamo molto in comune, legato a Vicenza e non solo. La sua morte mi ha fatto molto male. Ero stato in Cina con lui e la moglie Federica per un evento, poi erano venuti a trovarmi a casa. Avevamo parlato a lungo delle esperienze che potevamo condividere, di quanto avremmo potuto fare per dare un futuro migliore al calcio. Paolo e Federica stavano così bene insieme… Ero lieto di vederlo così felice. Se n’è andato troppo presto…».
Come passa le sue giornate? «Curo la casa e il nostro giardino. Ho l’ossessione dell’ordine, della pulizia del prato, del bosco, delle nostre piante. A volte rientro in casa e mia moglie Andreina mi sgrida: mi dice che sembro sfigurato, dovrei rallentare un po’».
Quali altri sport segue? «Amo il football americano e il basket Nba. Ho un debole per LeBron James, una leggenda, un gigante dello sport».