L’ex azzurro Palanca: “Al Napoli per il grande salto. Poi venne Maradona….”

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«Sa come la chiamavamo la Gazzetta noi calciatori di una volta? La Bibbia dello sport… Vi chiedo un regalo per il mio compleanno: scrivete che è assurdo battere gli angoli tornando indietro per far crossare poi dalla trequarti. Fa così schifo mettere un pallone forte e teso nel cuore dell’area? Il calcio è una cosa semplice, devi far gol…». Per capire meglio il senso di queste parole, ci sono due modi: scovare una macchina del tempo come la DeLorean di “Ritorno al futuro” oppure navigare sul web, digitando Massimo Palanca. Basta un attimo per ritornare nei favolosi anni Settanta, rifarsi gli occhi con le prodezze di un piccolo grande numero 11: l’O Rei di Catanzaro, il Cruijff dei poveri, il sinistro magico (37 di piede) che guidava un manipolo di “eversivi” in maglia giallorossa, capaci di fare la rivoluzione sul parto verde: la piccola squadra di provincia del profondo Sud che teneva testa (e qualche volta batteva) alle corazzate del Nord, tra il delirio degli operai-emigranti. Ieri Palanca ha allineato la sua età al decennio che lo ha reso celebre soprattutto grazie alle reti realizzate in A direttamente dal corner, senza filtro: 13. Un compleanno passato a Catanzaro, tra mille inviti e una cittadinanza onoraria che oggi riceverà dal sindaco-tifoso Nicola Fiorita.

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Palanca, dicevamo degli angoli: quanto si allenava per quella traiettoria diabolica? «Certo, un bel po’ di tempo glielo dedicavo. A Catanzaro c’è quasi sempre vento: potevo sfruttarlo a mio vantaggio. Colpivo forte, d’interno: il pallone si alzava, curvava e ripiombava all’improvviso sotto la traversa. I portieri all’inizio erano sorpresi, poi presero delle contromisure. Ma lo feci anche io».

Piazzando il suo compagno Claudio Ranieri sul primo palo. «Proprio così, schermava e dava fastidio. Ho fatto tanti gol e tanti altri sono arrivati dalla mischia che si creava dopo il tiro. Ecco perché trovo incomprensibile snaturarlo: si fa un favore alla difesa. Gli schemi vanno bene, ma sui corner basta che ci sia uno che li sappia calciare».

La curva del Catanzaro iniziava a cantare “Massimé/Massimé/pare ‘na molla/pare ‘na molla” appena lei si avvicinava alla bandierina. «Anni fantastici, sentivo l’amore di quel popolo. Sono marchigiano, papà era custode del campo di Camerino, io cresciuto con il pallone sempre tra i piedi. Oddio, cresciuto: sono alto uno e 70, quando giocavo pesavo circa 60 chili. Avevo i baffi per sembrare più cattivo… Dopo Frosinone in C, arrivo al Catanzaro: divento uomo e calciatore. Facendo cose bellissime».

In Serie A non solo salvezze…«Giocavamo sempre in casa: a Torino e Milano trovavamo 20 mila calabresi sugli spalti. Venivano a salutarci con le lacrime agli occhi “Siete la nostra rivincita”. Ho i brividi a ripensarci. Era un calcio pane e salame, ma autentico. Si guadagnava il giusto e stavamo a contatto dei tifosi».

Se dico domenica 4 marzo 1979? «E chi lo dimentica: Roma-Catanzaro 1-3, mia tripletta e un gol da calcio d’angolo».

Il vostro allenatore era Carletto Mazzone… «Romanista sfegatato: quel giorno camminava a tre metri dal suolo. Era felice, aveva dimostrato che non era catenacciaro».

Non lo era? «Quando mai: era un maestro di calcio. E infatti ha il record di panchine in A. Con lui si scherzava fino al giovedì, poi guai a sgarrare: pensiero fisso sulla partita. Una domenica l’ho fatto infuriare, me la sono vista brutta…».

Racconti. «Giochiamo in casa contro il Perugia: siamo in due contro uno, ma Vito Chimenti (mister bicicletta, morto qualche mese fa, ndr) invece di passarmi il pallone tenta un dribbling e l’azione sfuma. Dalla rabbia decido di lasciare il campo, il medico sociale mi blocca a un metro dal sottopassaggio. Mazzone era squalificato. Mi aspettò negli spogliatoi…».

Che cosa le disse? «Appena mi vide, attaccò: “Aho, mettite a sede’ che se alzo le mani ti spezzo in due”. E poi una serie di urli sull’importanza del gruppo. Il giorno dopo, però, mi diede ragione. Mi è dispiaciuto molto non andare al suo funerale, sono in Calabria…».

Chi è stato il primo a farle gli auguri per i 70 anni? «Claudio Ranieri, il telefono ha trillato a mezzanotte: era lui. La verità è che quel Catanzaro ha fatto i miracoli perché eravamo molto più di una squadra».

È stato il Re di Catanzaro, mentre Napoli è il rimpianto. «Credevo di trovare a Napoli il posto giusto per il grande salto. È andata male, non solo per colpa mia. Ho lasciato la città nel giugno 1984, un mese dopo sbarcava Maradona: giocarci con lui non sarebbe stato male».

Ha indossato la maglia azzurra una sola volta, nel 1979 con l’allora Nazionale Sperimentale contro la Germania Ovest. «C’era l’inflazione degli attaccanti, molti di loro sono diventati campioni del mondo. Oggi forse avrei trovato più spazio, ma di quella giornata ricordo tutto. Anche la pacca sulla spalla di Enzo Bearzot. Conservo la maglia come una reliquia».

Ha segnato 137 gol in carriera, 39 in A. Se potesse rigiocare una sola partita? «Lo spareggio di Terni nel 1975 per andare in A, perso contro il Verona. Ne feci quasi una malattia, per fortuna avevo come allenatore Gianni Di Marzio, un secondo padre. “Massimo, tra un anno festeggiamo noi”, mi disse in ritiro. Aveva ragione ed è stata la mia fortuna». E pure la nostra.

 

Fonte: Gazzetta

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